
E la stabilità di Governo? Ed il bene del Paese? Tutto superato, tutto dimenticato. Di fronte al passaggio della riforma elettorale dal Senato alla Camera concordato da Grasso e Boldrini in ossequio alla richiesta di Renzi di accelerare i tempi della riforma sfruttando a Montecitorio il peso dei deputati Pd, il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano ha apertamente minacciato la crisi. Cioè si è comportato come aveva fatto il Pdl quando era ancora unito, al tempo in cui pretendeva che stare insieme con il Pd e Scelta Civica nella maggioranza rendesse impossibile agli alleati di tentare di liquidare per via giudiziaria il loro leader Silvio Berlusconi.
La scissione, per chi lo avesse dimenticato, si è realizzata proprio su questo punto. I lealisti hanno continuato a sostenere che non si può stare in maggioranza con chi ti vuole ammazzare il leader. Gli alfaniani hanno invece stabilito che il bene del Paese inteso come stabilità di Governo è superiore all’interesse di parte rappresentato dalla lealtà verso il proprio leader. Ed hanno formato un nuovo partito che però adesso, ad appena un mese dalla dolorosa scissione, minaccia la crisi di governo se il Pd volesse realizzare alla Camera un blitz sulla legge elettorale puntando su un sistema maggioritario destinato a dare stabilità al bipolarismo ed a togliere spazio politico alle formazioni neo-centriste. Insomma, il bene del Paese valeva per consentire alla sinistra di espellere dal Parlamento Berlusconi.
Ma non vale adesso che il Pd , nella nuova versione renziana, ha deciso di mandare di traverso lo spumante con cui i proporzionalisti centristi hanno brindato alla sentenza della Corte Costituzionale e punta ad una riforma destinata a cancellare ogni vaga speranza di restaurazione della Prima Repubblica. La contraddizione è fin troppo evidente. Ma è anche comprensibile. Perché Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello e tutti gli altri scissionisti del Nuovo Centrodestra sono perfettamente consapevoli che sulla partita della legge elettorale si gioca la loro sopravvivenza politica. Un sistema fortemente bipolare, come potrebbe essere un Mattarellum senza la quota proporzionale, li condannerebbe o a rifluire verso Forza Italia o ad entrare a far parte di un grande rassemblement di centrodestra dominato ancora una volta dal Cavaliere.
Non ci sarebbe una terza alternativa. Perché non ci sarebbe spazio politico per le formazioni di stampo centrista. Si capisce, allora, perché dopo aver denunciato i pericoli di crisi quando li agitavano i lealisti berlusconiani, gli alfaniani abbiano reagito all’accelerazione di Renzi minacciando a loro volta la crisi di governo con la stessa motivazione usata dai loro ex amici. Ciò che non si riesce a comprendere, però, è come mai gente esperta come Alfano, Quagliariello e Cicchitto non abbiano messo in conto al momento della scissione che il nuovo segretario del Pd, qualunque fosse stato, avrebbe avuto come obiettivo prioritario quello di liberare il Governo dai condizionamenti delle larghe intese sia pure trasformate in piccole intese.
Ed avrebbe puntato a mettere in difficoltà, usando l’arma della nuova legge elettorale, le formazioni neo-centriste nate dalle spaccature del Pdl e di Scelta Civica. Chi ha assicurato loro che il Pd li avrebbe garantiti con un qualche ritorno al proporzionalismo destinato a renderli intoccabili come i partiti minori di area centrista della Prima Repubblica? È stato Enrico Letta? È stato Giorgio Napolitano? I diretti interessati conoscono la risposta. Ed oggi sanno pure che chiunque sia stato ha dato loro una bella “sòla” (termine romanesco per dire fregatura)!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:52