Il contagio del pensiero unico keynesiano

Da tempo mi sono formato la convinzione che chiunque faccia politica attiva tende ad essere keynesiano per interesse elettorale. In soldoni, l’idea di distribuire risorse al popolo, seppur sotto il nobile e desiderabile obiettivo di rilanciare la crescita, rappresenta oramai una tentazione irresistibile per i nostri sacerdoti del bene comune appartenenti a tutti gli schieramenti. Ma se a condividere la medesima prospettiva aggiungiamo l’intera, o quasi, pletora di sedicenti economisti che popolano le varie emittenti televisive, allora si può parlare di una sorta di pensiero unico keynesiano.

Lo conferma appieno Claudio Borghi, presunto studioso liberale, che nel corso di una recente puntata di Coffee Break - talk molto orientato a sinistra condotto da Tiziana Panella - ha ribadito un suo pensiero molto discutibile circa il taglio della spesa pubblica, mostrando in ciò di subire come tanti altri l’influsso malefico della prospettiva keynesiana. In estrema sintesi, Borghi ha cercato di spiegarci che in una fase di crisi come quella attuale, qualunque risparmio di spesa determinerebbe effetti negativi dal lato dell’acquisto di beni e servizi, in quanto toglierebbe altre risorse dalla platea indistinta dei consumatori.

Dunque, secondo una logica macroeconomica che oramai ai più - dopo decenni di bombardamenti propagandistici in questo senso - appare più che fondata (sebbene al livello individuale la stessa verrebbe considerata folle), si dovrebbe convenire, portando alle estreme conseguenze un tale assunto, che più spesa pubblica equivale a più sviluppo, visto che solo la mossa di diminuirla determinerebbe un’immediata contrazione economica.

Ora, in primis mi viene spontaneo pormi la seguente domanda: ma se non si taglia ora la colossale e sempre crescente spesa corrente dello Stato, dopo che in pochi anni il reddito nazionale è sceso di circa 10 punti percentuali, quando sarà possibile farlo, visto che la strada dei prestiti infiniti è preclusa dai rischi sempre attuali di un possibile e catastrofico default?

E ancora, ma siamo sicuri che il moltiplicatore economico della medesima spesa pubblica - il quale sta tanto a cuore al sottosegretario Fassina - sia migliore di quello privato, generando più risorse attraverso la redistribuzione operata dalla mano pubblica? Se così fosse, dato che da tempo l’Italia si trova ai primissimi posti nel mondo nel rapporto tra Pil e spesa dello Stato - oramai giunto al 55% - i continui stimoli keynesiani avrebbero dovuto rendere il Paese molto più ricco, anziché trovarci sulla soglia della bancarotta.

La verità, caro Borghi, che la strada di rilanciare lo sviluppo dal lato della domanda è sempre lastricata di buone intenzioni che portano diritte verso l’inferno. Se neppure tra chi si proclama liberale si è compreso che solo alleggerendo l’enorme fardello pubblico, con meno spesa e meno tasse, appare realistico riprendere a crescere, evitando nel contempo un’uscita catastrofica dall’euro (cosa che peraltro lo stesso Borghi auspica da tempo), allora nulla potrà salvarci dal baratro.

Dato che lo squilibrio tra chi vive grazie alle imposte e ai debiti pubblici e chi opera coi propri soldi sul libero mercato si è ulteriormente aggravato in questi ultimi anni, occorre abbattere una volta per tutte il totem keynesiano, se non si vuole cominciare a redistribuire pane e cicoria. Altro che sviluppo!

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:45