
Il suicidio in carcere è assimilabile alla pena di morte? Le condizioni disumane del carcerato equivalgono alla tortura? Sì e no. Risposta raggelante. Paese contorto e ambiguo, l’Italia, dove il dolce “ni” suona. La Costituzione stessa è largamente figlia di un originale anfoterismo filosofico. Il greco “anfòteros” significa “l’uno e l’altro di due”. Spesso, più è importante l’articolo, meno univoco è il significato. Quasi tutta la prima parte della Costituzione, proclamata comprensibilmente intoccabile dai sacerdoti dell’anfoterismo, possiede questa duplicità, se non addirittura doppiezza.
E, le rare volte che la norma è univoca, viene disattesa in pratica. È il caso del divieto alla legge di violare la dignità umana nei trattamenti sanitari. È il caso del divieto alla legge d’istituire pene contrarie al senso d’umanità e alla rieducazione del condannato. Se diamo ad ogni detenuto una cella, diciamo, confortevole in base agli standard carcerari, a ragione il suicidio sarà considerato una triste fatalità della prigionia. Ma se il detenuto, spesso neppure condannato con sentenza definitiva, viene ristretto, in ogni senso, con altri sette in una cella costruita per due, il suicidio potrà, non a torto, essere considerato la diretta conseguenza di una galera disumana che induce il carcerato a farla finita per sempre.
La procurata morte dei detenuti è ripugnante per lo Stato, sia perché essi sono inermi nelle sue mani, sia perché essi sono condannati (quando lo sono!) alla privazione della libertà, più o meno accentuata (isolamento, eccetera), non spinti a togliersi la vita. Secondo le statistiche, dietro le sbarre i suicidi sono venti volte più numerosi che fuori. Dipende, certo, dalla reclusione. Ma pure, senza dubbio, dalla sua bassezza. Un’aliquota di tale percentuale è sicuramente determinata dalla disumana vita carceraria. Rispetto ad essa può dirsi che lo Stato irroga, sebbene “sui generis”, una pena di morte.
Allo stesso modo infligge una tortura. Dimentichiamo troppo spesso che tortura, all’inizio, indica l’azione del torcere le membra all’imputato per farlo confessare o al reo per punirlo; poi, qualunque forma di coercizione fisica o morale; infine, qualsiasi sevizia, crudeltà, brutalità. Dunque, tutto sta ad intendersi. Lo Stato non sloga e non frattura più gli arti, per partito preso. Ma largheggia nel ficcare in galera gli incolpati e questa pratica puzza di tortura anche se coperta sotto il dolce eufemismo di custodia cautelare. È un’atroce angheria, perpetrata e protratta, il sovraffollamento delle carceri, al quale lo Stato non vuole porre rimedio con il pretesto pidocchioso della lesina. Uno Stato dissipatore che risparmia sui detenuti è privo d’umanità e insensibile alla loro sorte.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:41