Partito leaderistico, elezioni in primavera

Ciò che si andava preconizzando da tempo, ora incomincia a concretizzarsi. Non saranno le divisioni del Popolo della Libertà a far saltare il Governo di Enrico Letta, ma sarà il congresso (o meglio le primarie) del Partito Democratico a creare le condizioni per la fine delle larghe intese e per il ricorso alle elezioni anticipate nella prossima primavera. L’annuncio dato da Matteo Renzi che il suo obiettivo è conquistare i voti dei delusi del Pdl e di quelli del Movimento Cinque Stelle indica chiaramente che l’obiettivo del sindaco di Firenze non è di conquistare il partito per rinnovarlo, ma è quello di usare la segreteria come trampolino di lancio per la sua candidatura a Premier per governare il Paese.

Se il congresso del Pd fosse un vero congresso di tipo tradizionale la linea di Renzi diventerebbe il tema dominante della discussione delle assise nazionale del Pd. Con favorevoli e contrari e, comunque, con un approfondimento destinato a far comprendere all’opinione pubblica del Paese il significato reale dell’operazione. Ma quello che viene definito il congresso del Pd non è altro che un’elezione, a cui partecipano iscritti e simpatizzanti, che dovrebbe concludere una discussione interna avviata dalla presentazione dei programmi del singoli candidati segnata dalla singolare anomalia.

Quella che non essendoci più una struttura interna degna di questo nome in cui dibattere e approfondire, il cosiddetto congresso risulterà essere senza dibattito e l’elezione del nuovo segretario sarà decisa solo sulla base della notorietà mediatica dei candidati. I vecchi post-comunisti del Pd masticano amaro di fronte a quella che è un’evidente berlusconizzazione del loro partito. Ma è dal Lingotto e dall’elezione plebiscitaria di Walter Veltroni a segretario che hanno scelto la strada della trasformazione del partito tradizionale in partito leaderistico.

E oggi sono destinati a ritrovarsi con Renzi segretario a furor di popolo e con la prospettiva di andare al più presto ad elezioni anticipate per far giungere la trasformazione leaderistica del partito alla sua logica e naturale conclusione. Molti considerano questo processo politico in atto nel Pd come una fase di fisiologico passaggio dal vecchio al nuovo. Dove il vecchio è rappresentato dalla tradizionale nomenklatura post-comunista che ha come simbolo supremo Giorgio Napolitano, e il nuovo segnato dal rampantissimo sindaco di Firenze sostenuto dalla necessità dei media di avere un personaggio innovativo da vendere all’opinione pubblica.

Pochi, però, rilevano che questo processo di trasformazione del Pd da “ditta” collettiva, come diceva Pierluigi Bersani, a partito leaderistico, padronale e di modello berlusconiano come chiede Renzi, avviene senza alcun tipo di discussione seria e approfondimento reale. E, soprattutto, senza indicare al Paese dove questa trasformazione potrà portare oltre le elezioni anticipate di primavera. Verso la repubblica presidenziale renziana o, più semplicemente, verso un caos fatto di tante battute e di nessuna idea?

O peggio, verso una repubblica presidenziale in cui si pensa di far uscire il Paese dalla crisi attraverso le battute prive di idee? La logica del leaderismo vorrebbe che spettasse a Renzi di sciogliere questi interrogativi di fronte al Paese. Ma visto che il processo di passaggio tra il vecchio e il nuovo è ancora in corso, sarebbe bene che anche l’intero Pd e il resto della classe politica nazionale chiarissero una volta per tutte dove vogliono andare a parare.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:33