Damnatio memoriae damnatio cadaveris

La morte di Erich Priebke ha innescato un dibattito controverso e legittimamente lacerato l’opinione pubblica. Da una parte quanti avrebbero preferito meno clamore mediatico sulla scomparsa del feroce responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, convinti che la condanna del silenzio e dell’oblio sia molto più efficace di mille parole.

 Dall’altra i paladini della necessità di amplificare una damnatio memoriae giustificata dall’efferata sfrontatezza con cui il centenario criminale ha negato pietà per le sue vittime e ha addirittura ribadito le sue tesi negazioniste dello sterminio. Nello scontro dialettico, una buona falange dei promotori del silenzio si è appellata all’onestà storica e intellettuale di riconoscere come settanta anni fa Priebke fosse un soldato della Wermacht che nell’esecuzione, seppur mostruosa e inumana, agli ordini superiori, sentiva di non tradire il proprio onore. Ribellarsi, come pure fecero alcuni soldati nazisti, pagando con la propria vita, sarebbe stata comunque prova di un’umanità straordinaria che non è scontato pretendere in regime di guerra.

 Oltretutto, si rileva tra i fautori della necessità di dimenticare, che un occhio storico ricorderebbe, non con intento giustificatore ma analitico, come Priebke venne condannato soltanto per aver ucciso cinque civili in più di quelli che la folle logica della guerra prevedeva di poter condannare a morte per rappresaglia in caso di attentato all’esercito secondo la Convenzione di Ginevra. Non fu quindi per aver eseguito ordini legittimi che Priebke venne accusato. Resta che tutti ci auguriamo che Priebke paghi per le sue efferate azioni.

Ma in questo contrasto tra chi rivendica il silenzio e chi ribadisce la necessità di non dimenticare mai l’Olocausto e i suoi artefici la posizione a un primo sguardo meno comprensibile, se non nell’ottica di un recupero “credito” e plauso presso un’opinione pubblica favorevolmente sensibile alla polarizzazione del confronto e a cui far dimenticare le sue colpe storiche in termini di antisemitismo, l’ha assunta la Chiesa Cattolica che ha negato i funerali in chiesa all’ex ufficiale nazista.

 Come non collegare la presa di posizione del Vicariato di Roma al tentativo di emendarsi da un passato in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, Priebke non fu certo l’unico ad avvalersi dell’aiuto di sacerdoti per fuggire in Argentina? A quel tempo infatti il Vaticano si adoperò attivamente producendo una grande quantità di passaporti diplomatici della Santa Sede con nomi fasulli, per far fuggire un numero altissimo di criminali nazisti al fine di sottrarli ai processi per crimini di guerra.

L’impressione è proprio che con questa damnatio cadaveris la Chiesa abbia compiuto una scelta di marketing, un ulteriore, tattico passo per completare il proprio sdoganamento rispetto alle colpevoli posizioni tenute nei confronti del mondo ebraico. Ma lo ha fatto abdicando alla sua missione di concedere comunque pietà a un morto, tanto più se gravemente peccatore. All’insegna del solito buonismo ipocritamente conformista.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:40