
Può apparire singolare che mentre il Presidente del Consiglio Enrico Letta denuncia nell'instabilità politica la causa dello sforamento del tetto del 3 per cento imposto dall'Europa, il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni minacci le dimissioni, e quindi l'instabilità politica, per ammonire i partiti della maggioranza a non chiedere l'abolizione dell'aumento dell'Iva dopo aver ottenuto l'abolizione dell'Imu. La contraddizione di Saccomanni è evidente.
Ma la responsabilità di questa contraddizione non dipende dal Ministro dell'Economia che è entrato nel governo di Enrico Letta abbandonando la direzione generale della Banca d'Italia nella convinzione di dover svolgere il ruolo di strenuo sostenitore della linea del rigore nella tenuta dei conti pubblici. La vera responsabilità è di chi non lo ha avvertito, all'atto del conferimento dell'incarico (ed il riferimento non è solo all'inquilino di Palazzo Chigi ma anche a quello del Quirinale) che la linea del rigore non si difende con la sola logica dei numeri ma anche con la logica della politica. Se il problema della difesa del tetto del 3 per cento fosse solo numerico non ci sarebbe bisogno di un Ministro dell'Economia e neppure di un governo.
Basterebbe un qualsiasi contabile e la matematica sarebbe salva. Il problema, invece ed anche se Saccomanni fa finta di non saperlo, è politico. Perché non nasce dalla rigidità asettica dei numeri ma dalle cause politiche che rendono così rigidi i numeri stessi. E, quindi, per essere risolto non può non trovare che una risposta politica. In questa luce la questione non è più quella che Saccomanni vuole far credere della contrapposizione della linea del rigore rispetto alla linea dello sforamento. E neppure quella della fedeltà o meno agli impegni assunti con l'Europa. Ma diventa la questione del perché mai non ci possa essere una strada alternativa a quella secondo cui la pressione fiscale è e deve rimanere intoccabile. La risposta a questo interrogativo non riguarda i conti ma la politica.
Alla base della convinzione c'è l'assioma, condiviso o semplicemente accettato o subito, che la spesa ed i meccanismi che la producono e la fanno crescere progressivamente anno dopo anno, non possa essere comunque toccata. E che, di conseguenza, se si deve affrontare una emergenza di qualsiasi tipo ( anche quella della riduzione di una imposta per dare respiro al paese) si debba necessariamente operare sul versante delle entrate.
Non si sa se Saccomanni condivida o subisca il tabù della intangibilità della spesa pubblica. Si sa, però, che lo considera il presupposto immodificabile di qualsiasi strategia di politica economica. Senza prendere neppure in considerazione l'ipotesi che solo affrancandosi da questo tabù, frutto non solo di convinzione ideologiche ma anche e soprattutto degli interessi delle caste e della corporazioni che paralizzano il paese, si possa tentare di mantenere gli impegni internazionali senza aggravare la recessione che minaccia di uccidere il paese. Nessuno chiede a Saccomanni di tagliare la spesa sociale (anche se la razionalizzazione delle spese avrebbe come effetto di migliorare i servizi ).
Tanto meno di tornare ai tagli lineari di Giulio Tremonti. Ma sarebbe così impossibile puntare sui risparmi selettivi non imposti dall'alto ma realizzati in piena autonomia dai singoli centri di spesa? Perché non provarci? Un segnale, comunque , Saccomanni lo dovrebbe dare. Altrimenti è meglio che si dimetta. Che di rigoristi del partito delle tasse ce ne sono già troppi in circolazione !
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:31