Come Obama invade il potere giudiziario

Il giudice della Corte Suprema statunitense Antonin Scalia lo chiama “attivismo giudiziario”: quando un giudice, invece di applicare la legge, decide di interpretarla in modo da ottenere cambiamenti politici. Solo in questo fine settimana, in ben due casi, abbiamo assistito ad un ingresso, a gamba tesa, della politica nei tribunali. Nel primo, una giuria ha emesso il suo verdetto in base alle prove raccolte e alle testimonianze, secondo la legge, ma il presidente stesso si è mosso per contestare la sentenza. Nel secondo, un giudice ha emesso una sentenza richiamando esplicitamente il volere del presidente. Stiamo parlando, chiaramente, della sentenza Zimmerman-Martin e di quella sulla bancarotta di Detroit.

Il primo è il caso Zimmerman-Martin. Un vigilantes, George Zimmerman, ha sparato a un ragazzino disarmato, Trayvon Martin. Apparentemente un mostro (così lo hanno dipinto i media), si è invece scoperto che Zimmerman abbia agito per legittima difesa, dopo aver subito percosse e ferite da un ragazzino che era, sì, disarmato, ma non per questo innocente. La politica razziale è entrata in azione con tutta la sua potenza di fuoco: Trayvon Martin era afro-americano. Zimmerman, latino-americano, con un’origine africana nemmeno troppo remota, era comunque troppo bianco per essere protetto dalle leggi del politicamente corretto e dunque è passato per “il bianco che uccide gratuitamente un nero”.

Nonostante la forte pressione politica e mediatica, la giuria ha emesso il suo verdetto in base alle prove raccolte e alla verità emersa in un anno di processo: si è trattato di legittima difesa. Dunque Zimmerman non è colpevole di omicidio. A questo punto, però, è intervenuto Barack Obama, in persona, con una dichiarazione che suona come un atto politico che travalica il sistema giudiziario americano: «Trayvon Martin potevo essere io 35 anni fa». Lo ha detto nel bel mezzo di grandi manifestazioni politiche contro la sentenza, talvolta sfociate in violenza e teppismo. Dunque, visto il momento delicato, considerando che il Procuratore Generale ha già annunciato di voler metter mano al caso, per rivederlo e far sì che venga portato a cospetto di un tribunale federale, la dichiarazione del presidente suona come una pura e semplice contestazione di una sentenza non gradita.

A parte il fatto che un presidente che si identifica esplicitamente in un ragazzo, ritenuto colpevole di aggressione, non è il massimo del “fair play istituzionale” e può trarre in confusione (il comandante in capo degli Usa, da giovane, avrebbe aggredito anche lui uno dei custodi dell’ordine pubblico?), quello di Obama è un ingresso a gamba tesa in un processo. Proprio perché voleva, nel suo intento esplicito, riportare la calma nelle strade, avrebbe dovuto invitare a rispettare l’esito di un processo, obbedire a quella legge che lui stesso, in veste di presidente, è tenuto a rendere esecutiva. Il suo appello non è solo un tentativo di mediazione, non si tratta solo di aver scelto le parole giuste per cercare di placare gli animi. È stato, piuttosto, una sua presa di posizione, a metà strada fra la legge e la folla di manifestanti che contesta il sistema e lo vuole sovvertire. Un atto gravissimo, un precedente micidiale, di cui pure si stenta a comprendere fino il fondo l’importanza.

Il secondo caso è invece un tipico esempio di “attivismo giudiziario”. La giudice Rosemarie Aquilina ha respinto la richiesta di bancarotta per la città di Detroit, piegata da oltre 18 miliardi di dollari di debito pubblico. La metropoli, sede dei tre giganti dell’industria automobilistica, una delle più grandi d’America, è stata rovinata da 51 anni di politiche democratiche, basate su un uso sconsiderato della spesa pubblica, aggravate da un alto tasso di corruzione e da una crisi economica che ha dato il colpo di grazia.

Dopo un ultimo tentativo di salvataggio in extremis, respinto dai rappresentanti dei pensionati, il governatore del Michigan, un Repubblicano, Rick Snyder, ha chiesto la bancarotta. La città è indiscutibilmente fallita. Ma la giudice Rosemarie Aquilina ha dichiarato che la richiesta di bancarotta è incostituzionale (secondo la Costituzione del Michigan), argomentando la sua decisione in questi termini: “Non si onorerebbe l’impegno del presidente (Obama, ndr) che ha salvato (le compagnie auto, ndr) dalla bancarotta”, ha dichiarato in tribunale. Ha detto anche, dopo aver letto la sentenza, che il presidente ne possiede una copia. “Io so che la sta leggendo”, ha aggiunto esplicitamente, come a voler sottolineare un servizio reso (da un magistrato) al comandante in capo.

La Aquilina ricopre una carica elettiva, in uno Stato in cui i sindacati hanno un grande peso. In passato è stata anche l’assistente di un senatore democratico del parlamento Michigan. E’ dunque dichiaratamente di parte e con questa sentenza potrebbe aver tolto le castagne dal fuoco al presidente Obama. Ed evitato una figuraccia colossale dei Democratici a livello locale. Anche se non ha cancellato il caso Detroit. Perché una decisione di un giudice non può negare la realtà di un debito di 18 e passa miliardi di dollari che non può più essere ripagato. Obama, in questo caso, non ha avuto nulla da aggiungere. La sentenza è conforme alla sua volontà. Altrimenti avrebbe trovato modo di dire una cosa come “a Detroit potevo abitarci io 35 anni fa”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:49