Il paradosso che lascia Matteo Renzi al palo

Se Matteo Renzi non fosse un esponente del Partito Democratico ma, per assurdo, militasse in un qualsiasi partito del centrodestra, la sua intenzione di puntare alla leadership del Paese sarebbe sicuramente praticabile. Perché potrebbe intercettare facilmente il consenso della cosiddetta maggioranza moderata proponendo un programma di riforme ispirato alla generica, ma mediaticamente efficace, vulgata liberalsocialista a cui sembra fare riferimento. I dati elettorali indicano, infatti, che gran parte dell’elettorato del centrodestra non si lascia condizionare dagli appartati dei partiti di riferimento ma si lascia convincere dalla capacità di persuasione, come si è visto da vent’anni a questa parte con Silvio Berlusconi, di un leader con forte carica carismatica capace di evocare il mito del cambiamento e la speranza di crescita e sviluppo nell’opinione pubblica del Paese.

Il problema di Renzi è che la sua collocazione è quella di un esponente della sinistra , sia pure di estrazione cattolico-progressista piuttosto che di estrazione post-comunista. E che alle sue spalle non ha un elettorato sciolto dal vincolo degli apparati e dei partiti, ma un partito d’apparato che pone vincoli precisi sia al proprio elettorato che ai propri leader. Nella passata sfida con Pier Luigi Bersani, il sindaco di Firenze si era illuso di poter superare questo ostacolo attraverso il meccanismo delle primarie aperte che gli avrebbe potuto assicurare un’investitura popolare tale da liberarlo da qualsiasi vincolo e condizionamento posti dall'apparato. Ma la realtà formata dalle falangi compatte dei pensionati della Cgil e dei militanti inquadrati nelle cooperative ha bruciato le sue illusioni. E, soprattutto, ha dimostrato in maniera fin troppo evidente che senza avere alle spalle il tradizionale partito d’apparato affiancato dalle solite organizzazioni collaterali, nessun esponente della sinistra può sperare di diventare il leader del Pd e il candidato dell’intera sinistra alla carica di capo del Governo nazionale. Renzi, dunque, ha pochissime possibilità di vincere la partita per la leadership del Pd e per la premiership del Paese con qualunque possa essere il candidato scelto dall’apparato. Non è un problema di idee o di comunicazione. È un problema di organizzazione e di numeri.

I suoi nemici interni li hanno dove questi fattori pesano, cioè all’interno del partito. Renzi , che dall'apparato è considerato un esterno e trattato come tale, ne è in gran parte privo. Come dovrebbe comportarsi il sindaco di Firenze per poter coronare il proprio sogno di battersi per la guida non del partito ma del Paese? Sulla carta la risposta è semplice. Per vincere Renzi dovrebbe andare a cercare il consenso dove potrebbe trovarlo più facilmente. Cioè fuori del recinto del Partito Democratico e, probabilmente, fuori dello stesso recinto della sinistra. Il giorno in cui Berlusconi dovesse essere azzoppato dall’uso politico della giustizia, per lo scalpitante sindaco fiorentino si potrebbe spalancare una grande prateria da occupare. Ma non è affatto detto che il Cavaliere esca di scena. E, soprattutto, è assolutamente improbabile che Renzi decida di compiere l’unica mossa che gli potrebbe consentire di giocare la partita per Palazzo Chigi. Per liberarsi della cappa oppressiva rappresentata dal Pd e dalla sinistra non basta la capacità di comunicare. Ci vuole un grande coraggio politico e grandi idee con cui convincere gli italiani. Cioè ciò che fino ad ora manca all’inquilino di Palazzo Vecchio!

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:17