
Tra i luoghi comuni di questa travagliata stagione politica, quello secondo cui la Costituzione è “oramai” vecchia e necessita quindi di essere riformata è uno dei più insistentemente ripetuti. E, come spesso avviene, all’universale accettazione corrisponde una sostanziale vacuità. Le Costituzioni degli Stati non hanno un’età biologica che ne determini il ciclo vitale. La Costituzione degli Stati Uniti d’America ha quasi due secoli e mezzo di vita pressoché inalterata e non si sente affatto la necessità di cambiarla. La nostra Costituzione potrebbe dirsi essere vecchia, avendo ricalcato lo schema del “governo parlamentare” così come forgiato dalle prassi costituzionali createsi con lo Statuto Albertino, peraltro felicemente inosservato sin dall’inizio, in modo da consentire, appunto, che il governo “costituzionale” divenisse governo “parlamentare”.
La principale innovazione della Costituzione del 1948, che non fu tanto quella della forma repubblicana rispetto a quella monarchica, rappresentata dalla creazione delle regioni (di cui alcune a Statuto Speciale) e del loro autogoverno, non ebbe mai una vera attuazione, in quanto non fu mai trovata sul piano giuridico-costituzionale una chiara e stabile delimitazione di competenze, con una altrettanta chiara gerarchia delle rispettive norme e dei meccanismi atti ad assicurarla automaticamente, mentre sul piano pratico la confusione delle funzioni amministrative e del relativo assetto finanziario non hanno mai consentito stabilità e razionalità istituzionale. Del resto la Costituzione del 1948, non appena cominciò a darsene per avvenuta l’attuazione attraverso norme costituzionali ed ordinarie relative ai nuovi istituti, e mentre cominciava la solfa della retorica dei “valori costituzionali” e della “Costituzione nata dalla resistenza”, ha cominciato ad essere oggetto di propositi di revisione. Si può dire, quindi che ad essa sia mancato anche quel minimo di “stagionatura” che è essenziale per l’assetto costituzionale di uno Stato.
Molte delle innovazioni oggi ventilate per la carta fondamentale della Repubblica, benché rappresentate come un adeguamento a nuove necessità emerse con gli anni, sono relative a vizi originari dell’impianto costituzionale o, comunque ripropongono questioni esattamente come si presentarono quasi settanta anni fa. Prima fra tutte la questione del bicameralismo. Un Parlamento articolato con due Camere, quella dei Deputati ed il Senato e, soprattutto il “bicameralismo perfetto” con identiche funzioni e poteri dell’una e dell’altra fu allora un passo indietro rispetto al sistema vigente nel Regno prima del Fascismo. Il Senato, nel contesto sabaudo-unitario (1848-1922) non ebbe mai, malgrado la lettera dello Statuto Albertino, un ruolo paragonabile a quello della Camera. Privo della legittimazione del voto popolare (i senatori erano di nomina regia) esso non ebbe mai, di fatto, il potere di dare e revocare la fiducia ai governi, né dall’equilibrio delle forze in esso presenti (del resto meno marcatamente differenziale e per nulla corrispondenti alle posizioni politiche esistenti nel Paese, essendone, ad esempio, rimasti fuori repubblicani e socialisti), il Senato si era ritagliato un ruolo, per così dire, di consulenza istituzionale, dipendente più dal grande prestigio personale di molti Senatori che da norme o prassi relative a qualche sua specifica attribuzione. Se la Costituente, anziché sanzionare la scomparsa di quel pezzo di archeologia paleorisorgimentale ne decretò, invece una vera e propria rinascita, ciò fu dovuto alla preoccupazione, esistente sia a Destra che a Sinistra, di evitare che momentanee maggioranze potessero attuare incontrastati colpi di Stato.
In buona sostanza il sistema bicamerale fu adottato sacrificando coscientemente l’esistenza di quella che oggi chiamiamo la “governabilità” all’esigenza di evitare l’eventualità che qualcuno potesse “governare troppo”. Un’esigenza assai sentita, ad esempio, dalla D.C. e dai Cattolici, allora, checché se ne dica, ancora condizionati da diffidenze nei confronti della democrazia e dello stesso sistema parlamentare (da cui l’introduzione dell’istituto del referendum). Oggi l’esperienza dell’Italia post-unitaria e prefascista non sembra aver nulla da suggerire per ovviare alla “complicazione” rappresentata dal doppione esistente in Parlamento. Un po’ per ignoranza della storia, un po’ per difetto di quella sensibilità per le prassi stabilite su cui si fonda sempre l’agibilità delle Costituzioni e che aveva consentito un tacito “adattamento” dello Statuto Albertino, nessuno sembra in grado di ipotizzare la riduzione del Senato al ruolo prefascista. Né, probabilmente, questa sarebbe una soluzione utile e sufficiente.
Molto si parla del “Senato delle Regioni”. Ma, a parte il fatto del pessimo risultato, già dovuto constatare, della “base regionale” che la Costituzione vigente stabilisce per l’elezione della seconda Camera, è difficile anche solo ipotizzare un consesso con funzioni relative ad enti autonomi, di cui, a loro volta, non si è mai riusciti a ben inquadrare il ruolo ed il rapporto con lo Stato. Non è possibile, ogni volta che si deve affrontare qualche argomento relativo alla questione delle regioni (ed a maggior ragione quella di questa enigmatica “Camera delle regioni”) tacere sul guasto ulteriore che il federalismo per sentito dire di Bossi&Compagni e l’intento degli altri partiti di tacitarlo ha comportato per il groviglio costituzionale del nostro Paese. Ma al fondo di questo autentico disfacimento istituzionale c’è, incombente, la tragedia di una civiltà giuridica che sembra destinata a dissolversi. Anni fa io provai a teorizzare “l’ignoranza come elemento di evoluzione dell’ordinamento giuridico”. Ne avevo parlato nel corso di un Convegno all’Università di Macerata. Ricordo che l’allora Rettore Febbraio trovò l’assunto spiritoso e dovetti fargli presente che non intendevo affatto (allora) fare dell’ironia su certi pseudogiuristi di mia conoscenza, ma piuttosto intendevo sottolineare che la scienza giuridica, che è “scienza umana”, non può prendere in considerazione ciò che è sconosciuto, come la fisica, la medicina, la chimica, perché anche ciò che è prodotto come norma giuridica, se è universalmente sconosciuto, incompreso, dimenticato, non è parte dell’ordinamento giuridico, del diritto e non può essere oggetto della relativa scienza. Facevo l’esempio del testo del Digesto, considerato per tutto il Medioevo legge vigente.
Ma i passi del Digesto scritti in greco, lingua ignorata da tutti fino al Rinascimento, riprodotti nelle copie della Compilazione come “disegni” incomprensibili, davanti ai quali i Glossatori annotavano “graecum est, legi non potest”, erano allora necessariamente estranei al diritto vigente. Se dovessi oggi rispondere al professor Febbraio, lascerei da parte le considerazioni sull’ontologia della norma giuridica e sulla relativa scienza e gli direi che c’è tuttavia poco da ridere, ma semmai da disperarsi, perché sembra proprio che il diritto ed i suoi cultori siano travolti da un turbinio di asinità, di fronte al quale è difficile poter immaginare quell’armonia dell’ordinamento di cui ci parlavano quando eravamo studenti. E ciò che condiziona ogni innovazione giuridica. Ed è impossibile parlare seriamente di riforme di un diritto in cui scienza ed ignoranza si intrecciano sconciamente. Si fa presto a prendersela con la “casta” dei “politici” cattivi legislatori oltreché ladri, secondo le opinioni correnti tra quanti ancora fanno caso all’esistenza ed alla qualità delle leggi.
Fatto sa che i giuristi, quelli considerati tali per titoli accademici e funzioni più o meno giurisdizionali, o sono asini non meno degli improvvisati legislatori, o sono stati privati, per una sorta di male epidemico, delle facoltà critiche, o hanno così radicato attaccamento al principio di attaccar l’asino dove vuole il padrone, da perdere senso critico e capacità di manifestarne il prodotto ed anche il senso dell’umorismo, quello “nero”, che imporrebbe di sommergere in un mare di risate certe leggi, per non parlare di certe sentenze. Lasciamo perdere (per questa volta) certe sentenze. Ma avete inteso qualcuno dei custodi del giure patrio, degli esaltatori della Costituzione nata dalla Resistenza etc. etc. esprimere un giudizio, fare una battuta in qualche misura appropriata ai virtuosismi abrogatorii del ministro cavadenti Calderoli, soppressore della legge per lo stanziamento di 500.000 lire per la dote della figlia Maria Pia del Padre della Patria, e abrogatore degli effetti abrogativi dell’intervenuta abrogazione di leggi messe nel mucchio di quelle destinate al macero solo perché di data “troppo vecchia”?
O li avete intesi saltar su a strapazzare convenientemente chi andava ripetendo, non troppi mesi fa, che, per avere una legge elettorale migliore del “Porcellum”, bastava abolire questo con decreto legge così da avere al suo posto il precedente “Tatarellum” che era tanto, tanto migliore? Oppure li avete visti lanciare pomodori marci e torzoli di broccolo contro chi ha reso noto che nel “decreto del fare “ (decreto legge) c’è la reintroduzione della mediazione obbligatoria quale condizione per i giudizi civili, destinata ad entrare in vigore trenta giorni dopo la legge di conversione dello stesso decreto legge? Quanti degli autori di queste prodezze consumate nel più rispettoso silenzio dei nostri giuristi, accademici, togati, patentati e, magari, garantiti con il marchio della “saggezza” applicato a commissioni di cui sono chiamati a far parte, sono destinati al ruolo di padri della “seconda Costituzione”? La prima dicevano che era nata dalla Resistenza. La seconda che minacciano di ammannirci, nascerà dall’”inesistenza”, dalla frana del diritto e del buon senso. Da che altro oggi potrebbe nascere?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:50