
Il problema non è che la Fiat Industrial abbia deciso di trasferire la propria sede a Londra per sfuggire alla tassazione italiana del 36 per cento e sottoporsi a quella inglese del 20 per cento. Il problema è che la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane vorrebbe seguire l'esempio della Fiat per sfuggire ad una tassazione che le penalizza in maniera insopportabile rispetto alle equivalenti imprese straniere ma non è in grado di farlo. Di fronte ad un fenomeno del genere il buon senso imporrebbe di prendere al più presto misure destinate a mettere le imprese nazionali nella possibilità di competere in condizioni di parità con quelle straniere.
Invece le reazioni principali alla decisione di Fiat Industrial di trasferirsi in Gran Bretagna sono tutte ispirate all'indignazione ed alla condanna di una delocalizzazione che viene fatta, come ha detto con riprovazione il vice ministro all'Economia Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, in base «alla convenienza». Una “convenienza” che viene aspramente contestata dalla Fiom, che ha subito chiesto un «tavolo immediato» al governo per trovare il modo di reagire alla scelta della Fiat, impedire che il suo esempio venga seguito anche da altre aziende e continuare ad assicurare alle casse dello stato i proventi derivanti da una pressione fiscale giunta ad un livello superiore a quello di tutti gli altri paesi europei. È facile preventivare che il “tavolo” chiesto dalla Fiom non ci sarà. O, se mai dovesse essere convocato dal vice-ministro per coerenza con le proprie convinzioni e per non essere spiazzato dal sindacato di sinistra dei metalmeccanici, non produrrà alcun risultato.E non perché alla fine il buon senso finirà con l'avere la meglio sulle posizioni ideologiche.
Ma perché non ci sarà alcun bisogno di prendere misure punitive nei confronti di chi delocalizza visto che la stragrande maggioranza delle piccole e medie aziende lo farebbero volentieri ma non sono in grado di farlo. Chi rimane, dunque, non lo fa per convinzione ma solo per costrizione. E poiché la costrizione riguarda le aziende più deboli visto che le maggiori o già sono fuggite dove possono recuperare la capacità di concorrenza sul mercato globale o si accingono a farlo, la conclusione è fin troppo semplice. L'alto livello di tassazione si scarica solo sui “piccoli” e risparmia e mette in condizioni di privilegio i “grandi”. Con un effetto esattamente contrario a quella redistribuzione del reddito che, secondo l'impostazione ideologica di Fassina e della Fiom, la pressione fiscale dovrebbe realizzare. Più tasse, dunque, producono solo più disuguaglianza. Rendono progressivamente sempre più insopportabile la condizione dell'ottanta per cento delle aziende produttive nazionali e alimentano un sentimento di ingiusta oppressione in masse crescenti di cittadini che avvertono sulle proprie spalle il peso esorbitante della crisi.
Queste masse non sono formate solo dagli imprenditori piccoli e medi ma anche dai lavoratori delle aziende a cui l'alta tassazione impedisce di essere competitive sul mercato globale e dalle fasce crescenti di precari e disoccupati. Non si tratta, in sostanza, di un fenomeno di classe. Ma , al contrario, di un fenomeno incredibilmente interclassista che finisce fatalmente col mettersi in contrapposizione con quel mondo del pubblico impiego che non ha problemi di competizione e di concorrenza visto che la propria sopravvivenza dipende sostanzialmente dalla pressione fiscale. Il buon senso imporrebbe di prendere atto dell'esistenza di queste due società divise da una pressione fiscale che schiaccia quella privata e garantisce quella pubblica. E di ridurre una divaricazione che alla lunga potrebbe far esplodere il paese. Ma l'ideologia continua ad essere più forte del buon senso. Fassina docet!
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:51