
Da buon sindacalista il neo segretario del Pd Guglielmo Epifani è un uomo con i piedi ben piantati per terra. Così ha deciso che fino al prossimo autunno non farà solo il segretario del proprio partito ma continuerà a svolgere le funzioni di Presidente della Commissione Attività Produttive della Camera. Perché, come dice l'antico adagio popolare, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. E se in autunno il congresso del Pd non dovesse confermarlo alla segreteria la sua poltrona di Presidente di commissione parlamentare non gliela toglierebbe nessuno e non si ritroverebbe nella triste condizione di passare da un giorno all'altro da leader del Pd a deputato col rango di peone.
La decisione di Epifani spiega più di qualsiasi lungo discorso che la caratteristica principale dell'attuale segreteria del Partito Democratico è quella di essere a tempo, transitoria, precaria , balneare. D'altro canto, se è lo stesso segretario a non credere alla possibilità di rimanere alla guida del partito dopo il prossimo congresso, come si può pretendere ci possano credere gli altri dirigenti del Pd e gli osservatori esterni tutti ? Non è un caso, infatti, che a distanza di un paio di giorni dall'elezione di Epifani al vertice del partito, sia partita la corsa alla segreteria con la discesa in campo di Chiamparino, la conferma della candidatura di Cuperlo, la presenza di Barca impegnato in un tour promozionale (ovviamente di se stesso) nelle federazioni locali e l'incombenza costante di Renzi che nell'incertezza tra puntare a fare il segretario o a fare il Premier punta su tutto, tanto per non sbagliare. A questo fervore di candidature personali dovrebbe corrispondere un qualche dibattito interno sulle idee e sui programmi di cui questi uomini dovrebbero essere portatori.
Invece, a dispetto dell'altro antico detto secondo cui le idee camminano sulle gambe degli uomini, nel Pd ci sono gli uomini e le gambe ma mancano totalmente le idee. Ci sono, per la verità, quelli che sostengono il governo Letta e quelli che mugugnano contro il governo guidato dall'ex vice segretario del Pd. Ma se si considera che è lo stesso Letta a dichiarare di trovarsi alla guida di un governo che non gli piace, si capisce perfettamente che la distinzione tra gli uni e gli altri non è politica ma solo di convenienza personale. Chi è al governo cerca di rimanerci, chi non ha incarichi governativi pensa a quando il governo cadrà per vedere di poter entrare in quello successivo. Nessuno è in grado di prevedere se e quanto questo stato di atarassia politica del Pd possa andare avanti. Ma, al tempo stesso, nessuno può stupirsi se il partito erede della tradizione del Pci e della tradizione della sinistra democristiana si trovi in questo stato catatonico e che l'unico segno di vitalità in grado di essere percepito dall'esterno sia il disagio di ritrovarsi in una coalizione governativa a fianco degli odiati berlusconiani. La verità, infatti, è che negli ultimi vent'anni l'unica idea circolata tra i dirigenti e gli elettori del Partito Democratico è stata solo quella dell'ostilità nei confronti del Cavaliere Nero e dei suoi prezzolati vassalli e cortigiani.
Il confronto per un eventuale intreccio e fusione tra post-marxismo e post-dossettismo? Scomparso. La tradizionale dialettica tra riformisti e massimalisti? Relegata in soffitta tra le robe vecchie. L'attenzione per gli esempi offerti da Blair e da Obama? Cancellata. La stessa infatuazione per la socialismo più tradizionale (oltre che più vecchio e scontato) di Hollande? Svanita nel giro di qualche settimana. Ogni forma di riflessione politica, giusta o sbagliata che fosse, è stata soppiantata dal più facile visceralismo antiberlusconiano. Quello su cui punta Beppe Grillo quando spara a zero contro il governo Letta nella prospettiva di farlo cadere per fagocitare un Pd privo di idee e diventare l'unico e solo antagonista del “Nano”. Da Togliatti e Dossetti a Grillo, ovvero dal dramma alla farsa.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:37