Ma il Pd non vuole un governo paritario

Nel vecchio Pci del centralismo democratico il “contrordine compagni” veniva prontamente applicato. Magari tra silenziosi mugugni, tra rabbie represse, tra rancorosi adattamenti. Ma, sia pure emettendo fumo dalla mitica terza narice di guareschiana memoria, l'inversione di linea, anche quella più repentina e radicale, veniva immediatamente adottata non solo dal gruppo dirigente ma dall'intero partito, simpatizzanti e votanti compresi. Nel Pd, dove all'antico centralismo democratico si è progressivamente sostituito il correntismo esasperato dei leader e degli aspiranti leader e l'individualismo inconsapevole, non di stampo liberale ma di estrazione anarcoide, dei giovani in preda a rampantismo, il “contrordine compagni” viene ugualmente pronunciato.

Ma rimane puntualmente inapplicato e disatteso tra aperti mugugni, rabbie ululate, rancori sbandierati e, naturalmente, tra la ribellione concreta di franchi tiratori che preludono a futuri e magari più clamorosi gesti di analoga rivolta. La ragione è solo che al principio di autorità un tempo presente tra gli antenati dei dirigenti del Pd si è sostituito il principio del casino disorganizzato divenuto dominante durante l'ultima fase della segreteria Bersani? No di certo. Perché è vero che al partito delle troppe regole verticistiche si è sostituito il partito delle regole fasulle come quella delle primarie. Ma è altrettanto vero che la fine dell'obbedienza pronta, cieca ed assoluta ha prodotto un curioso fenomeno che impedisce ai dirigenti del Pd di adattarsi con realismo e concretezza al mutare delle situazioni e delle condizioni politiche. Si tratta del fenomeno della difficoltà ad affrancarsi dalla propria propaganda.

Quella che impedisce, dopo aver lanciato campagne strumentali contro gli avversari per scopi elettorali, di affrancarsi dalla strumentalità della vecchia campagna per adattarsi senza troppi problemi alle esigenze politiche nel frattempo mutate. Questo fenomeno di fideismo cieco ed acritico alle parole d'ordine del vertice del partito era presente anche nel passato. Ma mentre il Pci di allora lo piegava con la rigida gerarchia del centralismo democratico, il Pd di adesso non riesce minimamente a controllarlo. Per cui se da un giorno all'altro il partito passa dal considerare “impresentabili”, infrequentabili e moralmente e politicamente inferiori gli avversari del centro destra a persone con cui si deve comunque formare un governo, il pregiudizio alimentato in precedenza non subisce altra correzione dal “contrordine” e torna a scattare con un riflesso pavloviano assolutamente inconsapevole. Di qui, ad esempio, la singolare pretesa di parecchi esponenti di vertice del Pd di chiedere ad Enrico Letta di formare il governo chiesto da Giorgio Napolitano con il Pdl facendo ben attenzione che nella compagine non figurino quei personaggi del centro destra che fino a ieri erano bollati con il marchio della “ impresentabilità”.

Per costoro è assolutamente naturale immaginare un governo che pur essendo formato dall'intesa politica tra Pd e Pdl preveda l'esistenza di un doppio livello di cui quello superiore è appannaggio degli uomini più rappresentativi della sinistra e quello inferiore è assegnato ai rappresentanti più scoloriti ed anonimi del centro destra. La giustificazione portata avanti da questi dirigenti del Pd è che i propri elettori non potrebbero capire ed accettare una fine così repentina del pregiudizio strumentale nato quando la linea del partito era quella della chiusura all'esecrato fronte moderato e delle blandizie al Movimento Cinque Stelle. Ma è chiaro come questa giustificazione sia del tutto inaccettabile. O meglio. Abbia un senso solo se il Pd, per paura di perdere i voti degli schiavi della propria propaganda, non volessero fare il governo preteso dal Quirinale ma puntasse alle elezioni anticipate. Se è così non hanno che dirlo. E farla finita con la paralisi che in cui ormai da due mesi hanno posto il paese!

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:35