
Il congresso continua. Ovviamente quello che il Pd ha avviato in occasione dell'elezione del Presidente della Repubblica e che ha provocato l'implosione del partito contenuta, almeno in apparenza, con la rielezione di Giorgio Napolitano. E quello che riprende ora che dopo aver fatto il Presidente della Repubblica si tratta di fare non un governo qualsiasi ma il governo che, come indicato da Napolitano, dovrà affrontare l'emergenza economica e promuovere le riforme indispensabili per la ripresa del paese. La richiesta, decisamente e giustificatamente imperiosa del Capo dello Stato, infatti, non è stata di mettere in piedi un esecutivo di transizione, di breve periodo, destinato al piccolo cabotaggio e non attrezzato a sfidare il mare grande delle impellenti questioni nazionali. È stata, al contrario, di dare vita ad un governo di programma, che vada avanti almeno per un paio d'anni, cioè per il tempo strettamente necessario a realizzare le riforme istituzionali , che richiedono procedure lunghe e complesse, e le riforme economiche, che impongono un consenso politico e sociale largo.
Chi entra in un governo del genere in posizione di rilievo si carica sicuramente di una grande responsabilità ma assume anche un ruolo di primaria importanza nella politica nazionale, ruolo che non può non pesare ed incidere all'interno del proprio partito d'appartenenza. In questa luce va vista la continuazione del congresso del Pd avviata in occasione della battaglia per il Quirinale ed aperta ufficialmente con la giubilazione da parte di Rosi Bindi della candidatura di Enrico Letta, vice segretario dimissionario del Pd, a Presidente del Consiglio. Qual'è, infatti, la ragione di questo siluro se non quella di evitare che il ruolo di Presidente del Consiglio di un governo stabile possa influenzare il riassetto interno del Pd dopo il terremoto delle dimissioni di Bersani precostituendo le basi per una segreteria Letta o per il predominio dell'area trattativista del partito e la sconfitta di quella della chiusura intransigente a qualsiasi collaborazione con l'”impresentabile” centro destra? Ma se questa è la ragione del colpo decisamente basso rivolto dalla Bindi al proprio compagno di partito, di corrente, di origine democristiana e di area cattolico-progressista, è facile prevedere che qualunque altro esponente del Pd potrebbe essere accolto da identiche bordate di fuoco amico.
La logica secondo cui la presenza al governo può avvantaggiare Letta nel partito non può riguardare solo il vice segretario dimissionario. Diventa la regola da applicare ai danni di qualsiasi altro altro esponente. Al punto da lasciar temere che il gioco dei veti incrociati possa diventare un ostacolo estremamente arduo da superare per la formazione del nuovo governo. C'è un modo per mettere un freno a questo gioco al massacro che potrebbe addirittura portare il Pd a non partecipare alla coalizione governativa ed a scegliere la strada di un appoggio esterno destinato a rendere precario un esecutivo nato per essere solido e stabile? Una prima risposta l'ha data Giorgio Napolitano, con la sua chiara minaccia di rassegnare le dimissioni nel caso di una mancata assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche. Ma c'è un modo diverso da quello indicato dal Capo dello Stato, quello del chiarimento politico immediato all'interno del Pd. Ed è quella della separazione tra il realismo politico richiamato da Napolitano che impone la collaborazione tra i partiti e l'utopia irrealistica di chi sogna una sinistra dura, pura ed autosufficiente pur se minoritaria. Se congresso deve essere, è bene che si celebri subito. Perché il paese è stanco di attendere.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:13