
In apparenza la scelta di Romano Prodi, clamorosamente bocciata ieri dal Parlamento, sembrava fatta apposta per salvare l'unità interna del Partito Democratico e provocare la spaccatura verticale del paese secondo il solito e ventennale schema della contrapposizione frontale tra il Mortadella ed il Caimano. In realtà la mossa su Prodi, servita sicuramente per ricompattare il più possibile il partito dopo le lacerazioni provocate dal passo falso sul nome di Franco Marini, nasce non dal ritorno all'antiberlusconismo del bipolarismo della Seconda Repubblica ma dalla paura dell'intero Partito Democratico di essere travolto da quella che l'immaginifico Nichi Vendola definisce,con la solita demagogia trombonesca, l'«irresistibile spinta al cambiamento» della Terza Repubblica.
Prodi, in altri termini, è stato gettato in pista non in alternativa a Berlusconi ma per rappresentare un ostacolo a Beppe Grillo ed al personaggio con cui il leader di Cinque Stelle intende aprire il Pd come una scatola di sardine, Stefano Rodotà. In questa luce la partita del Quirinale si è trasformata nella illuminante anticipazione di uno dei temi politici destinati a dominare la scena nazionale nel corso dei prossimi anni: lo scontro per l'egemonia tra la vecchia sinistra rappresentata dal Partito Democratico dei post-comunisti e dei post-democristiani e la nuova sinistra dei grillini del Movimento Cinque Stelle. Puntando su Prodi, Pier Luigi Bersani ha pensato di poter rientrare nella partita che sembrava aver perso dopo l'implosione interna sul nome di Marini.
E di recuperare tutti quei dissidenti che in nome dell'opposizione a qualsiasi accordo con il centro destra si erano schierati con Rodotà. Ma il calcolo è apparso sbagliato per due ordini di ragioni. Il primo è che la maggior parte dell'elettorato di sinistra cresciuto nel culto della propria diversità e superiorità è già stata conquistata dalla predicazione estremista e giacobina di Beppe Grillo. E come hanno dimostrato le manifestazioni dentro e fuori le sedi del Pd, le raffiche di insulti sulla rete e le richieste pressanti di aderire alla richiesta di Grillo di uscire con le mani alzate dal bunker di via del Nazareno, non può essere in alcun modo recuperata ad una corretta e più razionale attività politica.
Il secondo ordine di ragioni è che il conflitto tra le due sinistre non esaurisce affatto la normale dialettica democratica. Ne rappresenta una parte importante ma non esclusiva. Perché mentre il Pd cerca di frenare con il vecchio antiberlusconismo prodiano le puntate insistenti del nemico a sinistra grillino, l'altra metà del paese , quella non solo dei nemici storici della sinistra ma anche quella che si colloca tradizionalmente in una posizione centrista, non sembra rimanere indifferente di fronte alla deriva estremista, alla occupazione sistematica di tutte le cariche istituzionali, alla conversione all'estremismo più esasperato della sinistra tradizionale. I sondaggi che danno il Pdl ed il centro destra in crescita non sono una invenzione di Silvio Berlusconi.
Più la sinistra si estremizza e lo manifesta nei soliti modi esasperati ed inquietanti, più la maggioranza moderata torna a sentirsi minacciata da un pericolo addirittura più grave di quello rappresentato dalle conseguenze della crisi economica. Alle prossime elezioni, che potrebbero essere vicinissime, la vecchia regola montanelliana del turarsi il naso può ritrovare un grandissimo seguito. E dare al centro destra, si spera nel frattempo rinnovato, la possibilità di tenere ai margini gli estremisti e guarire dalla malattia del grillismo i democrats privi di difese immunitarie contro la demagogia e l'estremismo.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:29