
Pierferdinando Casini, che è politico di lungo corso e di grande pelo sullo stomaco, sostiene che Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi hanno già stretto un accordo sul successore di Giorgio Napolitano e sul prossimo governo ma lo tengono nascosto per non farlo bruciare da possibili reazioni interne sia al Pd che al Pdl. Può essere che Casini abbia ragione. Ma non è detto che il silenzio dei due leader favorisca la buona riuscita dell'intesa. C'è , semmai, il rischio sempre più evidente che lo stato di fibrillazione prodotto dalla assenza ufficiale di un qualsiasi accordo provochi un effetto esattamente contrario a quello voluto.
Cioè l'impossibilità di realizzare qualsiasi intesa a causa della riapparizione delle correnti all'interno del Partito Democratico e dello scoppio di una conflittualità tra queste diverse componenti del partito di Bersani che secondo qualche osservatore ricorda la guerra di correnti interna alla Democrazia Cristiana che precedette e provocò l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Il rischio che l'eventuale patto tra il Cavaliere ed il segretario Pd salti è concreto ma il paragone tra le situazione odierna e quella del '92 è sbagliato. Non perché il correntismo del Pd non ricordi quello della Dc ma perché quello di oggi che riguarda il partito di Bersani è decisamente più grave di quello democristiano. Allora la Dc si divise tra forlaniani ed andreottiani e la spaccatura irrimediabile provocò l'elezione nefasta di Scalfaro.
Oggi le spaccature del Pd non sono solo tra renziani e bersaniani, come potrebbe apparire a prima vista, ma sono tra tutti contro tutti, tra cattolici e post-marxisti, tra franceschiniani, bindiani, dalemiani, veltroniani, giovani turchi, bersaniani del tortellino e quelli estranei al tortello magico, riformisti e neo-comunisti, tra ambientalisti ed animalisti e l'elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo fino ad identificare la posizione di ciascun parlamentare ed esponente del partito. Il guaio, infatti, è che la Democrazia Cristiana del '92 era un partito in via di dissolvimento ma non lo sapeva mentre il Pd è un partito in cui tutti i suoi militanti sanno benissimo essere destinato al dissolvimento. E l'occasione dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica è l'occasione più prossima e più invitante per rendere palese ed ufficiale ciò che è fin troppo evidente dentro e fuori il partito. La riprova di questa singolare situazione è costituita dal timore che qualunque strategia venga decisa dal vertice del Pd per dare una soluzione al doppio nodo del Quirinale e del governo possa essere impallinata e bloccata da qualche corrente decisa a mettersi di traverso.
I bersaniani, ad esempio, temono che se il segretario decidesse di puntare ad eleggere un Capo dello Stato vicino ai grillini e pronto a dargli il famoso mandato pieno per l'improbabile governo di minoranza, i renziani e le altre correnti contrarie al disegno approfitterebbero del voto segreto previsto per l'elezione del Presidente della Repubblica per mandare a picco l'operazione. A loro volta, però, gli stessi renziani e gli esponenti delle altre correnti appaiono perfettamente consapevoli che i ruoli potrebbero essere scambiati se i seguaci di Bersani volessero bloccare qualsiasi intesa sul successore di Napolitano diretta a favorire la formazione di un governo non guidato dal proprio leader. La sensazione, in sostanza, è che il 18 aprile, giorno in cui si apriranno le votazioni per il successore di Napolitano, si tornerà a parlare dei franchi tiratori della sinistra e della loro capacità di paralizzare il Parlamento e la politica nazionale decretando nei fatti la fine del Partito Democratico.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:26