Napoli da ragione all'allarme di Squinzi

Poiché le rivoluzioni non nascono mai dalle masse popolari ma solo dalle minoranze attive borghesi della borghesia, è bene non sottovalutare le parole del Presidente della Confindustria Squinzi che teme lo scoppio della violenza per all’aggravarsi della crisi. E, soprattutto, è indispensabile prendere atto che il primo segnale di questo possibile scoppio si è già verificato a Napoli con la manifestazione di piazza dei commercianti sfociata in incidenti per fortuna estremamente limitati. Il sindaco Luigi De Magistris, che poi è stato l’obbiettivo principale della protesta dei commercianti esasperati, ha liquidato lo scoppio d’ira dei manifestanti come il frutto dell’infiltrazione di gruppi camorristici. Il ché può essere in parte anche vero visto che difficilmente dei pacifici commercianti divelgono il selciato, lanciano bombe carta e si calano il passamontagna per non essere riconosciuti dalle telecamere della polizia.

Ma ridurre la vicenda ad un semplice ed esclusivo fatto camorristico sarebbe un errore clamoroso. Che può essere compiuto da un De Magistris disperato per il fallimento della propria amministrazione e per la crisi di consenso che è costretto a toccare giornalmente con mano. Ma che non dovrebbe essere commesso da chi ha responsabilità maggiori di un declinante Masaniello che per difendersi tira strumentalmente in ballo una presunta avversione della criminalità organizzata. Ciò che è avvenuto a Napoli è la conferma che le preoccupazioni di Squinzi sono fondate. E che gli incidenti a Piazza del Municipio non vanno derubricate in evento camorristico nato dalla ostilità dei mascalzoni contro il sindaco alfiere della legalità ma come un primo ed inquietante segnale che la capacità di sopportazione del ceto medio ha raggiunto il livello di guardia e può sfociare da un momento all’altro nella protesta più dura e violenta.

Non è affatto un caso che questo segnale venga da Napoli. Perché la rabbia dei commercianti partenopei non è esplosa solo contro le difficoltà crescenti provocate dalla crisi economica, contro il progressivo impoverimento della classe media e contro l’incapacità della classe politica di prendere coscienza di quanto sia ormai estesa e pesante la tensione sociale. È esplosa anche contro un tipo di amministrazione ispirata ad una arroganza pedagogica, ad un moralismo presuntuoso, ad un giustizialismo aristocratico, ad una forma di nuovo autoritarismo che in De Magistris ha trovato non l’interprete esclusivo ma solo il rappresentante più folcloristico. La protesta, in sostanza, segna l’esaurimento ed il fallimento del fenomeno che ha portato negli anni scorsi la cosiddetta borghesia progressista a puntare per il governo dei territori sugli ex magistrati portatori di improbabili progetti di palingenesi politica e morale.

Napoli è il primo segnale. Che potrebbe essere seguito da segnali analoghi a Bari, a Milano, a Palermo ed in tutte quelle altre città dove un certo tipo di borghesia ha cercato di sostituire le vecchia e corrotta classe politica con un nuovo ceto politico tratto dalle minoranze giustizialiste della magistratura e dalle componenti più faziosamente moraliste della sinistra italiana. La crisi , in sostanza, sta dimostrando l’inadeguatezza non solo della vecchia nomenklatura dei partiti tradizionali ma anche di quelli che si erano presentati come gli uomini nuovi alternativi a quelli del passato. Come dimostra il caso De Magistris ma anche i casi di Di Pietro ed Ingroia. Il ché per un verso è un fatto positivo in quanto smaschera una finzione demagogica ed autoritaria pericolosa ma per un altro verso è fin troppo inquietante. Perché pone l’antipolitica sullo stesso piano fallimentare della vecchia politica. Ed impone di affrontare il problema gigantesco della formazione di una nuova classe dirigente radicalmente nuova e diversa da quelle ormai esaurite.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:52