Si congela qualcosa per conservarla e poterla utilizzare in un secondo momento, non per gettarla via. In questo senso è appropriato sostenere che la decisione del presidente Napolitano di nominare i dieci saggi ha soltanto “congelato” Bersani, senza sancire il suo fallimento. Certo, il segretario del Pd avrebbe di gran lunga preferito ricevere un incarico pieno, per formare il suo governo e farsi eventualmente sfiduciare in aula, entrando comunque a Palazzo Chigi, oppure le dimissioni anticipate del presidente, ma ha “assorbito” con lungimiranza la mossa del Colle, cogliendone la debolezza, persino l'impotenza. Napolitano, infatti, gli ha sì sbarrato la strada verso Palazzo Chigi, ma di fatto, pur non dimettendosi, perché sconsigliato da Draghi, sta passando nelle mani del suo successore la spinosa questione del nuovo esecutivo.
Il favore a Bersani è doppio: perché il presidente non ha attribuito a nessun altro l'incarico di formare un governo, come invece avrebbe voluto la prassi costituzionale alla luce dell'esito negativo della sua esplorazione; e perché ribaltando l'ordine dei fattori dell'ingorgo istituzionale – l'elezione del nuovo presidente della Repubblica è ormai temporalmente prioritaria rispetto alla formazione del nuovo governo (il 18 aprile la prima seduta utile) – aiuta il segretario del Pd a tenere il partito unito sulla prima delle due scadenze. L'inerzia è di nuovo a vantaggio di Bersani: basta aspettare l'elezione del nuovo inquilino del Colle, che sarà più propenso a conferirgli l'incarico anche senza numeri certi al Senato. Esplicativo il titolo dell'editoriale di Stefano Menichini, direttore di “Europa”: «Si va al governo passando dal Quirinale». Così come sperava che l'elezione dei presidenti di Camera e Senato potesse favorire le condizioni per ottenere almeno il “non impedimento” alla nascita del suo governo, ora Bersani spera di utilizzare l'elezione del nuovo capo dello Stato per continuare la sua rincorsa a Grillo, per un nuovo tentativo di agganciare i senatori del M5S.
Se il nuovo presidente venisse eletto senza i voti del Pdl, ma con qualche voto dei montiani e dei grillini, come avvenuto per Grasso, tramonterebbe definitivamente qualsiasi ipotesi di “larghe intese” tra Pd e Pdl e verrebbe rilanciata, invece, l'idea del governo del “cambiamento” in grado di ottenere almeno la “non sfiducia” dei grillini. O, al peggio, ci sarebbe il voto. Peccato che il presidente abbia deciso di chiudere il suo settennato con una mossa così dilatoria e pilatesca. Questa volta il compagno Napolitano ha anteposto l'interesse del suo partito alla tutela delle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica, che aveva voluto difendere con forza, invece, chiamando in causa la Corte costituzionale sulle intercettazioni che lo riguardavano in possesso della Procura di Palermo. Dei due poteri che la Costituzione attribuisce al capo dello Stato per risolvere crisi politiche come quella attuale – il potere di nomina del presidente del Consiglio e il potere di scioglimento anticipato delle Camere – gli restava solo il primo, poiché il presidente in scadenza di mandato non può sciogliere anticipatamente le Camere. Ebbene, Napolitano ha rinunciato anche a quello.
Ha rinunciato al potere di nominare un presidente del Consiglio, quindi a provare a sciogliere con il potere che la Costituzione gli attribuisce l'intricato nodo del governo, inventandosi invece una formula dilatoria – le due commissioni di saggi – che nelle sue intenzioni dovrebbe servire a «spezzare, o magari soltanto allentare, la spirale di incomunicabilità fra partiti che si sentono e si comportano ancora come se fossero in piena campagna elettorale». Ha inteso creare una sorta di camera di decompressione, illudendosi di far emergere in questo modo elementi programmatici condivisi di un eventuale governo di corresponsabilità, più o meno esplicita, tra le forze politiche. Di fatto però, più o meno consapevolmente ha regalato al Pd una cospicua rendita di posizione. Mentre prima avrebbe dovuto accettare un nome di garanzia per il Quirinale affinché non fosse preclusa la nascita di un governo Bersani, adesso è nella posizione di pretendere che il centrodestra si pieghi a votare il candidato espresso dalla sinistra, pena l'elezione della personalità più antiberlusconiana possibile. E in ogni caso il nuovo presidente consentirebbe finalmente a Bersani di varare il suo esecutivo “di minoranza” e di insediarsi a Palazzo Chigi.
Se una simile manovra presidenziale avesse in tal modo favorito Berlusconi, si sarebbe gridato al golpe per settimane. La linea di Bersani, di totale chiusura nei confronti del centrodestra, non poteva, e non può, essere messa in discussione all'interno del Pd, se non in modo lacerante. Se davvero c'è chi non la condivide, di sicuro stenta a manifestarsi. E stenterà ancor di più, dal momento che la mossa del Colle aiuta Bersani a compattare il partito dietro di sé, essendo l'elezione del nuovo presidente l'obiettivo condiviso su cui ora non ci si può proprio dividere. Al rifiuto del segretario del Pd di rinunciare all'incarico nonostante non fosse riuscito a ottenere le condizioni poste da Napolitano (una maggioranza certa anche al Senato), il presidente avrebbe potuto, e dovuto reagire facendo saltare il tappo, dichiarando formalmente fallito il tentativo di Bersani e nominando un premier incaricato di formare un governo. Era questo l'unico atto di forza che avrebbe potuto dare una scossa al Pd: a quel punto, chi non fosse stato convinto della linea Bersani, avrebbe potuto sfidarla sotto la copertura autorevole del Quirinale, con gli argomenti pressanti di un governo del presidente che sarebbe arrivato di lì a poco a chiedere la fiducia alle Camere. Napolitano non se l'è sentita di mettere il proprio partito di fronte ad un bivio così lacerante, ma così è uscito dalla sua traiettoria istituzionale proprio all'ultima curva del suo settennato.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:48