
Mario Monti ha fatto molto presto ad impossessarsi dei tradizionali vizi di quella classe politica che vorrebbe sostituire in nome di una presunta superiorità intellettuale e tecnica. Ormai il nostro presidente del Consiglio si è messo a predicare bene ed a razzolare male. Come qualsiasi politicante da strapazzo che in campagna elettorale si lancia nelle promesse più mirabolanti nella assoluta ma nascosta convinzione di non poterle mai rispettare. L’esempio di Davos, dove Monti ha spiegato che non si può rimanere fermi mentre il mondo cambia assicurando che le sue riforme daranno copiosi frutti a tempo debito, è stato fin troppo significativo. A dispetto dei dati negativi sull’andamento della economia italiana, infatti, il nostro presidente del Consiglio si è presentato come l’artefice della ripresa di credibilità del paese grazie alle grandi riforme innovative messe in cantiere durante il suo anno di governo.
Purtroppo, però, a smentire Monti non sono subentrate solo le previsioni cupe e preoccupanti del Fondo monetario internazionale sulla mancata ripresa che aspetta l’Italia nel 2013. È arrivata anche la dimostrazione di quale effettivamente sia la politica falsamente innovatrice con cui Monti si propone di far uscire il paese dalla recessione in cui il suo stesso governo l’ha infilato deprimendo i consumi ed aumentando a dismisura il carico fiscale per i cittadini.Questa dimostrazione è contenuta in due atti distinti. Il primo è stata la difesa d’ufficio fatta dal Professore del Pd dall’accusa mossa da Silvio Berlusconi al partito di Bersani di essere ancora segnato e contaminato dal proprio passato comunista. Nel sostenere che quel passato è stato comunque “glorioso” e nel negare che il Pd sia ancora legato alla tradizione del Pci, Monti ha di fatto ammesso di essere pronto all’alleanza post-elettorale con la sinistra erede del comunismo italiano. Il secondo atto è stata la presenza nella lista civica che fa capo all’attuale presidente del Consiglio di numerosi rappresentanti delle grandi industrie nazionali e dell’assenza nelle stesse liste di qualsiasi rappresentante del mondo delle piccole e medie imprese.
Il combinato disposto di questi due atti, come si direbbe con il lessico burocratico tanto caro ai tecnici al governo, indica con chiarezza che la politica spacciata da Monti come innovatrice non è altro che le vecchia alleanza tra il capitalismo familiare italiano e la sinistra politica e sindacale nata ai tempi del compromesso storico e delle intese da Giovanni Agnelli e Luciano Lama dei nefasti anni ‘70.
Quella politica che consentiva ai grandi capitalisti alla Agnelli di socializzare le perdite e privatizzare gli utili di aziende dove sindacati e sinistra politica garantivano la pace sociale in cambio di potere crescente nelle stesse aziende e nelle istituzioni del paese.
Quella politica si fondava sull’aumento progressivo della spesa pubblica, che come si è visto è cresciuta progressivamente negli anni fino a sfondare il tetto dei duemila miliardi, e sulla crescita della pressione fiscale, necessaria a finanziare i costi senpre più esorbitanti, scaricata sulla massa delle piccole e medie imprese e sul resto della società nazionale.
Monti, in sostanza, ripropone la solita minestra riscaldata che fa comodo solo a pochi privilegiati ed alle caste politiche e sindacali della sinistra. Nel segno, ovviamente, della “gloriosa” cucina comunista.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:29