
Ci sono molte ragioni che spiegano la crisi degli ambientalisti e degli ecologisti di sinistra ormai incapaci di esprimere una propria lista verde, emarginati nel Pd e fagocitati dai giustizialisti di Antonio Ingroia. C'è l'arretratezza ideologica che ha impedito a questo mondo tradizionalmente collaterale alle grandi formazioni politiche della sinistra di uscire dagli schemi passati della semplice tutela astratta e rigida e dalla identificazione tra sviluppo e consumismo capitalista in una visione perennemente catastrofista del futuro. E ci sono questioni più contingenti, e magari anche misere, come l'eventualità che a determinare l'esclusione dalla liste del Pd di ambientalisti storici come Ferrante e Della Seta possa essere stata la loro posizione intransigente contro l'Ilva di proprietà di quella famiglia Riva che in passato aveva generosamente finanziato il partito di Pierluigi Bersani. Oppure come le liti e le divergenze personali che hanno impedito la creazione di un grande partito ecologista ed hanno creato le condizioni per la dissoluzione degli ultimi dei verdi dentro il movimento giustizialista degli ex magistrati Ingroia, De Magistris e Di Pietro.
Ma la ragione principale della eclissi degli ambientalisti di sinistra è che nel momento in cui la crisi economica internazionale e nazionale è diventata più acuta non sono riusciti, proprio a causa dei loro ritardi culturali ed ideologici, a lanciare la proposta di affiancare al modello di sviluppo fondato solo sull'industria e sulla finanza un modello di sviluppi incentrato sull'ambiente e sulla cultura. C’è stato il tentativo di indicare la “green economy” come via d'uscita dalla crisi dell'industria e della finanza. Ma si è trattato di un tentativo debole, frenato proprio dagli schematismi ideologici antichi che impediscono agli ecologisti di sinistra di coniugare la tutela con lo sviluppo e di concepire un futuro per il mondo globalizzato che non sia catastrofico. Il vuoto lasciato dall'ambientalismo della sinistra potrebbe e dovrebbe essere riempito da un ambientalismo di segno diverso, capace di considerare la tutela dell'ambiente come uno strumento per un tipo di sviluppo collaterale e non totalmente alternativo a quello tradizionale. E, soprattutto, convinto che non esiste una sola formula d'uscita alla crisi internazionale e che ogni paese è obbligato a trovare una risposta ai problemi posti dalla crisi partendo dalle proprie caratteristiche e peculiarità.
L'ambientalismo nuovo destinato a colmare il vuoto lasciato dal vecchio,in sostanza, dovrebbe lanciare una proposta per uscire dalla crisi ispirata ai valori ecologici generali ma calata concretamente sulla realtà nazionale e sulle sue singolari ed uniche caratteristiche. Dovrebbe, in sintesi, farsi promotore della necessità di non insistere esclusivamente su industria e finanza ma di puntare anche su territorio e cultura, che sono gli elementi fondati dell'identità nazionale italiana, per far uscire il paese dalla crisi. Se la metà degli aiuti e degli stanziamenti che lo stato destina alle aziende decotte fossero destinate alla riconversione delle coste scempiate dalla speculazione selvaggia del secondo dopoguerra, alla conservazione del paesaggio e dei grandi bacini culturali di cui è ricca l'Italia, agli interventi contro i rischi idrogeologici e sismici ed , in generale, alla tutela dei nostri beni ambientali e culturali, si aprirebbe la strada ad un modello di sviluppo diverso e stabile da affiancare a quello tradizionale. Investire , per il pubblico e per il privato, su Pompei può essere più conveniente e produttivo che investire sull'Ilva. Puntare su cultura ed ambiente nei grandi parchi nazionali può consentire di riassorbire la disoccupazione di un settore manifatturiero in difficoltà. Ma può nascere un ambientalismo nazionale e liberale se le forze politiche da cui dovrebbe scaturire non riescono a capire che la loro sopravvivenza non dipende dalla composizione delle liste ma dal recupero delle idee di cui queste liste dovrebbe essere l'espressione?
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:39