Peggio di così non poteva chiudere. Esco, no, riscendo in campo, cacciamo Monti, no non scendo, risalgo, Monti lo voglio io. Con Alfano, proclamato erede universale, poi rimandato in sala d’attesa, usato per silurare Monti, che poi, magari, Monti se lo dovrebbe ritrovare per capo partito, se Berlusconi (che di Berlusconi, evidentemente, stiamo parlando) non cambierà ancora idea e vorrà il Professore a capo “dei moderati”. Ho sempre ritenuto che Berlusconi avesse molto da spartire con Pannella: la grande capacità mediatica, l’assenza (ed il disinteresse) per un vero progetto politico (ma Berlusconi aveva quello, comunque, di governare) la preoccupazione di non finire per creare sul serio un partito. E poi, nella fase del declino, la predilezione per il balletto: lo sciolgo – non lo sciolgo – esco – non esco – non ci presenteremo più alle elezioni “come tali” (solo come talaltri!). Accomunati, purtroppo, quindi, da un brutto modo di uscire di scena. Ma Berlusconi aveva una responsabilità particolare: quella di dar conto al paese delle ragioni della sua sconfitta. Lo avesse fatto avrebbe dato con ciò all’Italia più di quanto sia riuscito a fare con le realizzazioni dei suoi governi. Era suo preciso dovere, oltre che suo interesse morale e non solo morale, denunciare la guerra che gli è stata fatta dal Partito dei magistrati (altro che «certi magistrati». «quelli rossi», «certi pm», come ogni tanto ha mormorato!), dalla corporazione della stampa, dai “poteri forti”.
Certo avrebbe dovuto così ammettere di non aver affrontato i veri problemi, di non aver lottato contro un formidabile partito trasversale, di essere vissuto alla giornata, di aver inseguito impossibili compromessi per resistere qualche giorno di più a Palazzo Chigi, per non precludersi la speranza di un altro ritorno. Ma con una simile denuncia avrebbe forse creato le basi di quel partito che in tanti anni ha rifiutato di far nascere intorno a sé. Il fatto è che sembra temere anche oggi questa possibilità. Preferisce essere l’autocrate di una forza inesistente piuttosto che gestire con un minimo di collegialità e di democrazia una forza reale, benché minoritaria e, al momento, sconfitta. Benché “ritirato” o forse “ridisceso” in campo solo a metà o, se vogliamo, benché in attesa, appunto della discesa in campo, il “capo” del suo partito sarebbe Alfano (cosa che potrebbe contestarsi solo osservando che Angelino non può essere diventato capo, segretario, amministratore delegato o curatore fallimentare di un partito che non c’è), Berlusconi si lascia andare a dichiarazioni da “padrone del vapore”. Ha annunziato, ad esempio, parlando di Dell’Utri: «Quello non lo candido». Magari perché una volta aveva messo su i “circoli”, o forse perché la Cassazione ha dichiarato che era imputato di niente.
Ma, intanto, nel vuoto lasciato dalla dissoluzione del Pdl, va a collocarsi una destra tecnocratica-pasticciona che vuole “candidare” Mario Monti, che poi della candidatura, benché decisa, si direbbe, con primarie tenute nei palazzi dell’“Europa bancaria”, non ha alcun bisogno, perché oramai si torna ad un tipo di governo che non ha bisogno del sostegno delle Camere e tanto meno di quello degli elettori, ma solo della fiducia e della “benevolenza” del Sovrano. Questa è l’unica nota di una “modernità” che ci fa rimpiangere l’antico, è un Sovrano più “straniero” che “europeo”, più bancario-borsistico che istituzionale. Con le “primarie” espediente propagandistico inventato dalla coalizione di Prodi, abbiamo cominciato a fare delle elezioni un giuoco inconcludente. Con le indicazioni “Berlusconi presidente”, “Veltroni presidente”, “Casini presidente” abbiamo scardinato l’equilibrio tra i poteri, e liquidato il “governo parlamentare”, senza creare un governo presidenziale. Ora le primarie si fanno a Bruxelles. Ma restano un giuoco. Non è certo il Partito popolare europeo (a cui Berlusconi sacrificò quel tanto di liberalismo che c’era nella prima edizione di Forza Italia) che candida Monti o chiunque altro. Chiunque sia, ce lo impone puramente e semplicemente la macchina di potere europea. Che così impone pure a noi, se vogliamo ancora credere in istituzioni libere e democratiche, di essere, in qualche modo, antieuropeisti. E questo è forse il peggio in questo inverecondo pasticcio. Intanto ai nuovi padroni della politica italiana la questione giustizia interessa meno delle vicende societarie di una fabbrica di lucido di scarpe di periferia.
Il Partito dei magistrati trova con i tecnocrati e gli “antipolitici” consonanze allarmanti. Di riforme della giustizia si parla sempre di meno. Dello strapotere dei magistrati meno ancora, se possibile. Pare che sia argomento che farebbe aumentare lo spread.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:30