“TerreMonti” mette in crisi (anche) il Pd

Se l’investitura di Mario Monti da parte dei vertici del Ppe riuniti giovedì scorso a Bruxelles spingesse davvero il premier a rompere gli indugi e a muovere il passo decisivo della sua discesa in campo – la politica non è solo governare, ma anche raccogliere il consenso – il sistema dei partiti della cosiddetta Seconda repubblica ne verrebbe completamente terremotato. Una sua candidatura a premier alla guida di una coalizione di centrodestra ispirata al popolarismo europeo, non sancirebbe solo la definitiva uscita di scena del Berlusconi leader, come è facile intuire, ma anche il superamento di una certa idea di centrodestra e di centrosinistra. Porterebbe con sé, in sostanza, una “normalizzazione” in senso europeo – lungo l’asse Ppe-Pse – del nostro sistema politico. A confrontarsi per il governo del paese sarebbero la sezione italiana del Ppe da una parte e quella del Pse dall’altra, le due grandi famiglie politiche che si confrontano in tutti i maggiori paesi europei. Anche se ciò, di per sé, non esaurirebbe certo lo spazio politico per altre forze: per esempio, un partito dal forte radicamento territoriale come la Lega e uno alla sinistra del Pse.

La presenza stessa di una personalità come quella di Berlusconi in questi vent’anni ha spinto il sistema politico su una strada diversa da quella continentale europea e per certi aspetti più simile alla politica americana. Da una parte, un centrodestra “fusionista”, al cui interno avrebbero potuto convivere cattolici, laici, liberali, destra nazionale e sociale, ex socialisti riformisti, nonché istanze autonomiste; dall’altra, l’idea di partenza del Pd era che per meglio contrapporsi a Berlusconi non dovesse ridursi ad essere un partito socialdemocratico, e nemmeno una sommatoria tra ex Pci ed ex Dc dossettiani, ma che dovesse abbracciare anche culture laiche e liberaldemocratiche. Insomma, aderire al Pd non avrebbe dovuto significare essere socialisti, tant’è che formalmente non fa parte del Pse, ma i suoi eurodeputati aderiscono al più ampio gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Ora, la candidatura di Monti sotto l’insegna del Ppe rischia non solo di cambiare i connotati del centrodestra – con la Lega, la destra nazionale e sociale, e i liberisti duri e puri, che probabilmente resterebbero fuori dal rassemblement “moderato” – ma anche quelli del centrosinistra. Anche se l’indissolubile subalternità alla Cgil, la scelta dell’alleanza con Sel e la vittoria di Bersani alle primarie avevano già accentuato il carattere socialdemocratico del Pd, la discesa in campo di Monti rischia di produrre un suo ulteriore spostamento a sinistra. E si ha già sentore di qualche movimento da parte dei “montiani” del Pd. Tale normalizzazione, quindi, sancirebbe sia il fallimento dell’idea berlusconiana di centrodestra, alla base della discesa in campo di Berlusconi nel 1994, sia di quella del Pd. Il centrodestra, insomma, “morirebbe” democristiano e il Pd socialdemocratico. In realtà, entrambi i progetti contenevano in sé le premesse del loro fallimento.

Quello di Berlusconi non tanto per l’adesione di Forza Italia al Ppe nel 1998, quanto piuttosto a causa della progressiva marginalizzazione della componente liberale a vantaggio di quelle cattoliche ed ex socialiste e dell’abbandono di un’idea di riforma istituzionale per un tatticismo sempre più esasperato. Quello del Pd per l’egemonia, culturale e di apparato, degli ex comunisti, presto rivelatasi incontrastabile. Non si può tuttavia ancora escludere che Monti intenda utilizzare l’investitura Ppe non per mettersi alla testa di un centrodestra che colmi il vuoto nel campo moderato che spaventa, comprensibilmente, i popolari europei, bensì per una manovra centrista che gli consenta di ottenere ciò che vuole senza schierarsi, restando con le mani (e la coscienza) politicamente pulite.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:34