Scende o non scende? Rimane o non rimane ? Sale o non sale? Gli interrogativi, ovviamente, riguardano tutti Mario Monti. Scende in campo nella campagna elettorale accogliendo la richiesta di Silvio Berlusconi di guidare un fronte moderato ancora tutto da definire oppure accettando la proposta di Casini e Fini di risolvere il loro problema personale e diventare il capo del centrismo che non c'è? Oppure rinuncia a qualsiasi discesa e si ritrae come Cincinnato nel suo metaforico campicello professorale in attesa di essere richiamato a furor di media e di poteri forti dopo un voto destinato presumibilmente a decretare lo stato di ingovernabilità del paese?
Rimane a Palazzo Chigi fino ad oltre la data delle elezioni ben consapevole che con ogni probabilità , sempre a causa di un esito non decisivo della consultazione popolare, dovrà restare al proprio posto a guidare un governo di emergenza ormai stabile se non addirittura definitivo almeno per buona parte della prossima legislatura? Sale o non sale al Colle, non tanto per rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio ed essere incaricato di restare al proprio posto per il disbrigo degli affari correnti in campagna elettorale, quanto per fare una ricognizione delle stanze che potrebbe occupare in primavera in qualità di successore di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica?
Ognuno di questi interrogativi ha un fondamento. Nessuno, al momento, ha una risposta certa. E questa incertezza ha un doppio effetto. Da un lato trasforma Mario Monti nel convitato di pietra della prossima campagna elettorale e lo pone al centro di ogni discorso, ipotesi, prospettiva o fantasia istituzionale. Dall'altro dimostra in maniera fin troppo brutale come nel nostro paese la crisi non sia solo economica ma anche politica e culturale. Al punto da trasformare in demiurgo salvatore della patria, in novello Cincinnato console invitto o in un italico e moderno generale De Gaulle un personaggio che nell'anno in cui è stato al governo del paese ha dimostrato di saper poter parlare benissimo l'inglese nei consessi internazionali edi capire altrettanto bene le esigenze dei governi e dei poteri forti europei, ma di avere come unica ricetta per uscire dalla crisi quella dell'uso del torchio fiscale sui ceti medio-bassi della società italiana.
La conclusione, dunque, è sconsolante. Se al centro della scena italiana come unica speranza di un migliore futuro per il paese non c'è una strategia ed una visione politica ma solo i dilemmi sulle possibili scelte di Mario Monti siamo decisamente messi male. Non per sfiducia o scarsa considerazione nei confronti del Professore. Ma perché, a dispetto del coro ampio e compatto di adulatori italiani e stranieri su cui può contare, l'attuale presidente del Consiglio non ha fornito ancora indicazione o conferma su quale possa essere la strada migliore per risanare e rilanciare il paese oltre quella della semplice e scontata pressione fiscale in continuo aumento.
Si dirà che il giorno in cui dovesse decidere il proprio futuro scegliendo di accogliere la proposta di Berlusconi, quella di Casini e Fini o quella di Bersani di entrare a far parte del proprio ipotetico governo a fianco di Vendola, Monti scioglierebbe il dilemma indicando la strada e la propria visione politica e culturale.
Ma fino a quel giorno (sempre che poi ci sia, visto che con ogni probabilità Monti eviterà di scendere in campo preferendo salire al Colle) nessuno potrà ragionevolmente prevedere quali potranno essere le prospettive della società italiana. A conferma che alle volte il problema di un paese non è quello di avere “un uomo solo al comando” ma di non avere nessuno che sappia o voglia effettivamente uscire dal gruppo e prendere la guida della carovana.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:13