Nomenklatura Pd, dalla padella alla...

I veri sconfitti delle primarie del Pd sono i componenti della nomenklatura. Quelli che hanno combattuto con feroce determinazione Matteo Renzi colpevole di volerli rottamare e nel difendersi dal “ragazzino” hanno assicurato una forte investitura popolare a Pierluigi Bersani che mette ora il segretario nella condizione di rottamarli come avrebbe voluto fare il sindaco di Firenze.

Non è un caso che nella sua prima dichiarazione dopo la vittoria il segretario del Pd abbia posto al primo posto della sua agenda il rinnovamento generazione del partito. Perché l’unica strada per disinnescare la bomba ad orologeria rappresentata dal quaranta per cento (più o meno) di militanti che ha votato Renzi in nome del cambiamento è rappresentata dal realizzare il punto più qualificante e più trainante del programma del proprio sfidante.

In tempi passati nei grandi partiti di massa un risultato come quello delle primarie del Pd sarebbe inevitabilmente sfociato in un accordo spartitorio tra i due contendenti. Ed in fondo ciò che temono i vari Bindi, Franceschini, Finocchiaro, Letta, Fioroni è proprio una intesa post-primarie tra Bersani e Renzi che sancisca la spartizione del Pd tra il sessanta per cento dei “giovani turchi” bersaniani ed il quaranta per cento degli “alieni” renziani. Il tutto, ovviamente, sulla loro pelle di dirigenti costretti, loro malgrado, a scavarsi la fossa con le proprie mani sostenendo il segretario nella battaglia contro lo sfidante.

Ma nell’immediato Renzi non può permettersi un accordo spartitorio con il segretario. Perderebbe di colpo tutto il credito che ha conquistato così rapidamente sull’elettorato più giovane, dinamico ed innovatore del Pd. Bersani, viceversa, forte di una investitura popolare personale che nessun leader del Pd ha mai avuto (le primarie plebiscitarie per Veltroni non contano per assenza di reale competizione), può incominciare a smantellare pezzo per pezzo le posizioni di potere di chi lo ha sostenuto nella convinzione non solo di tutelare se stesso ma di continuare a tenere sotto controllo un segretario primus inter pares.

L’investitura popolare delle primarie, infatti, ha liberato Bersani dall’ipoteca che la nomenklatura aveva nei suoi confronti. Ed ora, soprattutto se il Parlamento non riuscirà a varare una nuova legge elettorale e le prossime elezioni si terranno con il Porcellum, il segretario potrà scegliere uno per uno i futuri parlamentari e cambiare radicalmente la fisionomia della rappresentanza politica del Pd. Per uno che punta apertamente a Palazzo Chigi, non a caso ribattezzato dai suoi sostenitori, Palazzo Pigi, un passaggio del genere appare addirittura obbligato. Se vuole governare senza il rischio di quelle fratture che in passato hanno segnato negativamente l’esperienza dei governi di sinistra, Bersani non può permettersi di avere alle spalle gruppi parlamentari del Pd rosi dal correntismo e dalle lotte di potere. Deve necessariamente contare su gente non solo capace ma anche fidata. Che non lo tratti come a suo tempo vennero trattati Romano Prodi, Massimo D’Alema o Giuliano Amato.

Chi capisce di politica sa bene che questa necessità di Bersani non può rimanere priva di conseguenze. Perché chi fa parte della nomenklatura e teme di finire nel mirino del segretario non potrà restare con le mani in mano in attesa della mannaia destinata ad escluderlo dalle liste elettorali. Da oggi all’inizio ufficiale della campagna elettorale, allora, c’è da aspettarsi di tutto dentro il Pd. A partire dalla possibile uscita in direzione del centro di Casini e di Montezemolo da parte di quegli ex popolari che, per evitare la padella rottamatrice di Renzi, si ritrovano oggi nella brace di un Bersani schiacciato su Vendola e obbligato a guardarsi alle spalle.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:15