Proviamo una lettura meno caricaturale dello psicodramma del Pdl. Secondo Berlusconi le primarie non bastano, anzi così organizzate (provincia per provincia) rischiano di alimentare le faide interne e dar vita ad uno spettacolo ancor più disgustoso agli occhi degli elettori. Ci vorrebbe il Berlusconi del 1994, un nuovo Berlusconi, o almeno un leader con il famoso “quid”, di cui però il Cav non vede traccia nel partito. Come dargli torto? Ha corteggiato invano suoi possibili successori, da Montezemolo a Monti, i quali hanno cortesemente declinato. In parte per la natura stessa del personaggio, che non ammette co-protagonisti, in parte per l’assalto mediatico-giudiziario, intorno al Cav c’è solo terra bruciata. Personalità esterne alla politica esitano a farsi avanti per paura di ricevere lo stesso trattamento, e in ogni caso non accetterebbero mai di caricarsi sulle spalle il corpaccione dello screditato Pdl e la pesante, controversa eredità del suo fondatore. Il Cav capisce che la sua stagione è finita e fatica ad accettarlo. Quindi continua a “sragionare” di un nuovo Berlusconi e di “shock”. Il partito dovrebbe aspettare che si manifesti, come una sorta di messia, o andarselo a cercare. Dopo aver sbraitato, è lui stesso ad ammettere di non avere assi nella manica, di non sapere neanche lui cosa fare, e a definire il suo uno «sfogo». Fin qui l’aspetto psicologico. Ora quello politico. Legittimo che Alfano e i suoi coltivino ambizioni, ma commettono il tragicomico errore di ignorare i propri limiti se pensano di costruire il proprio futuro politico rompendo con Berlusconi, nell’illusione che ciò renda possibili chissà quali nuove e formidabili alleanze. E senza di lui, o peggio avendolo contro, nemmeno le primarie sovvertirebbero il clima di smobilitazione. Comprensibile che il malumore del Cav aumenti sentendosi epurato da un gruppo dirigente mediocre – il cui appeal sull’elettorato non è ancora nemmeno lontanamente comparabile al suo – convinto che il sacrificio del capo e appiattirsi su Monti servano ad un disegno politico in realtà manifestamente suicida. Dopo un anno, a nulla sono serviti i passi indietro di Berlusconi (se non ad irritarlo), anzi l’agognata unità dei “moderati” che avrebbero dovuto favorire è quanto mai lontana. Il gioco di Casini è un altro: la deberlusconizzazione del Pdl non come precondizione di un’alleanza, ma come premessa della sua liquefazione.
Quello di Fini di ieri mattina (con Alfano possibile una «pagina nuova per tutti i moderati») è solo l’ultimo dei “baci della morte”. Lo stesso D’Alimonte, rivelando candidamente il senso della sua proposta di riforma elettorale, dà la misura della stupidità del Pdl che in Senato ha votato, con Udc e Lega, un testo simile: «Con questo meccanismo Casini potrebbe decidere di fare un’alleanza elettorale con il Pd sul modello siciliano. Arriverebbero al 40%, e con 14 punti di premio arriverebbero al 54%: se il Pd facesse un listone unico con Sel potrebbe disinnescare la pregiudiziale di Casini nei confronti di Vendola». Biscotto servito e tanti saluti al Pdl.
La soglia – per ora al 42,5%, ma Pd e Udc sono già d’accordo sul 40 – è funzionale ad un’alleanza Pd-Sel-Udc o, in ogni caso, regala una enorme rendita di posizione post-voto ad un Casini in crisi, che nelle ultime tornate elettorali non è apparso in grado di intercettare voti Pdl e il cui progetto Terzo polo si è dimostrato velleitario. Tra l’altro, è una legge peggiorativa del porcellum in termini di governabilità: se nessuno raggiunge la soglia, non scatta il premio ed è proporzionale puro; ma la coalizione che la raggiungesse potrebbe comunque essere troppo disomogenea, come lo sarebbe una formata da Pd, Sel e Udc.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:38