A metà strada tra aneddoto e leggenda, vulgata vuole che per fare uscire dalla piccola officina torinese di via Ormea il primo esemplare della 12 HP, poi ribattezzata “Alfa”, Vincenzo Lancia abbia dovuto abbattere a colpi di piccone i montanti della porta d’ingresso, altrimenti troppo stretta. Battezzato a picconate, per un crudele scherzo del destino, lo storico marchio automobilistico italiano sembra essere destinato a perire a scalpellate. Quelle inferte dall’Ad Fiat, Sergio Marchionne, come epitaffio dopo 116 anni di Lancia: «Dobbiamo essere onesti, la Lancia ha un appeal limitato fuori dall’Italia».
E così, d’ora in avanti lo scudo blu zaffiro servirà a marchiare soltanto più le utilitarie chic Ypsilon, e qualche bestione partorito a Detroit dai designer di casa Chrysler. Almeno finché ci saranno i soldi per continuare a farlo. Poi il marchio potrebbe finire definitivamente in soffitta, assieme a tanti altri fagocitati nel tempo dalla Fiat, da qualche casa straniera o semplicemente dalla crisi.
Per quanto Marchionne cerchi di indorare la pillola, minimizzando i toni cupi di un De Profundis, la Lancia è un paziente cerebralmente morto tenuto in vita da un respiratore artificiale. Accessoriare una citycar con qualche optional di lusso, o ingentilire alla bell’e meglio le linee esagerate di un transatlantico a quattro ruote americano, cambiandogli magari il nome per ribattezzarlo come qualche vecchia gloria della casa torinese non è più vita: è accanimento terapeutico.
Per carità, la Ypsilon è probabilmente ciò che di meglio può offrire il mercato nel segmento delle piccole automobili, la Thema è elegante, lussuosa e prepotentemente motorizzata, e la Flavia è una di quelle decappottabili che non si può fare a meno di divorare con gli occhi, quando passano per strada. Ma di Lancia, ormai, hanno solo più nome e marchio. È finita l’era delle Dilambda Torpedo da gangster di Chicago. Delle Aurelia B24 nate con il Sorpasso nel sangue, e non solo su celluloide. Delle Flaminia che facevano rassomigliare una qualsiasi Mercedes ad un cassonetto per l’organico vestito a festa. Delle Fulvia regine di Montecarlo, delle Stratos e delle Delta dominatrici dei Rally con il tricolore di Alitalia o la livrea rossoblù Martini. Delle Thema su cui negli Anni ‘80 scorrazzavano gli yuppies, i ministri della Prima Repubblica e i vari protagonisti del secondo miracolo economico italiano.
Con la Lancia se ne va per sempre un pezzo di quell’Italia che non soffriva di complessi di inferiorità esterofili, nonostante avesse per carrozzeria un understatement molto piemontese. Se ne va un pezzo di quell’Italia che faceva scuola di eleganza, che non inseguiva le mode, semmai le inventava, costringendo il resto del mondo a prendere esempio per restare al passo. Scompare definitivamente il “lancista”, che si distingueva dalla massa per l’auto che guidava prima ancora che per il mestiere che svolgeva, il partito per cui votava, la squadra di calcio che sosteneva, persino la religione che professava.
O forse, è tutto un grande abbaglio, e sta accadendo proprio l’esatto contrario. La Lancia scompare proprio perché la vecchia schiatta borghese italiana tutta d’un pezzo che per quasi un secolo aveva scarrozzato si è estinta prima di lei, rimpiazzata da un’indistinta massa di parvenu, cafoni arricchiti e svariate declinazioni di “vorrei-ma-non-posso” che intasano i marciapiede e le aiuole parcheggiando di sghimbescio un Suv comprato a rate, magari con i soldi negati all’apparecchio ortodontico dei figli o nascosti all’ultima dichiarazione dei redditi.
Ma più di ogni altra cosa, assieme alla Lancia si spegne l’ultimo barlume di speranza in un’imprenditoria nazionale ancora innamorata del fare impresa, ancora capace di rischiare, di creare, di rinnovarsi, di inventare, di lottare fino all’ultima risorsa con rabbia e con orgoglio, senza temere confronti anche impietosi con una concorrenza più forte, più ricca, più spietata, ma non necessariamente più capace. Un’imprenditoria che con quattro chiodi e un po’ d’ingegno faceva gridare tutti gli altri per l’ammirazione e l’invidia. Un’imprenditoria davvero italiana, insomma, e non un’americanata ridipinta.
Possiamo scegliere di farcene una ragione, oppure no. Ma se la Lancia ci lascia a piedi, è forse perché non ci è rimasto più nessun posto dove andare.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:26