Promesse elettorali in Usa (e in Italia)

Che differenza c’è tra le promesse elettorali che fanno gli aspiranti presidenti degli Stati Uniti d’America e quelle dei politicanti qui in Italia? Chiunque abbia visto, possibilmente in originale, i due dibattiti presidenziali tra Barack Obama e Mitt Romney, dovrebbe essersene accorto: negli Usa i candidati fanno a gara a chi promette meno tasse per la classe media, e in genere per tutti, con diverse modulazioni tra democratici e repubblicani che si basano solo sulla soglia di quei contribuenti che si possono definire “molto ma molto ricchi”. Nella fattispecie quelli oltre i 250mila dollari annui. In Italia invece, dove già sei mazzolato dai 30mila euro in su, i maggiori schieramenti sinora visti negli ultimi 20 anni, centrodestra e centrosinistra, fanno a gara nel giustificarsi sul “perchè non possiamo abbassare le tasse”.

E se per la sinistra l’eterna favoletta è quella che sostiene che “la colpa è degli evasori fiscali”, con il corollario del “recuperiamo prima l’evasione e poi abbasseremo le aliquote”, per il centrodestra il totem è una fantomatica spesa pubblica da tagliare dopodiché “avremo un sistema a tre aliquote, 20, 30 e 40 per cento”. Promessa che sarà stata annunciata una decina di volte nel corso dei tre governi Berlusconi. Naturalmente i politici italiani, al contrario di quelli americani, mentono sapendo di mentire. Come la vedova scaltra che inventa sempre nuovi ostacoli al suo nuovo matrimonio. Infatti chi sostiene che solo il recupero dell’evasione libererà risorse per abbassare le aliquote rimanda inevitabilmente tutto alle calende greche perchè “campa cavallo” in un sistema fiscale che non permette alcuna detrazione incrociata e non pone i contribuenti in conflitto di interessi tra di loro. Ma mentono consapevolmente, purtroppo, anche i “reaganiani” alle vongole del centrodestra quando straparlano di tagliare gli sprechi ben sapendo che sulle corporazioni parassite dello stato si basa il potere clientelare e il vero voto di scambio tanto degli ex fascisti quanto dei quasi ex comunisti. I ministeri, la Rai, gli enti locali, le asl, le municipalizzate, il para-stato e le grandi industrie assistite tipo Fiat sono la debole colonna vertebrale della partitocrazia italiana. Tagliare li, significa tagliare il ramo su cui è seduta la politica italiana. Da questo, ora che ci siamo ridotti ad avere un governo tecnico a vita “perchè ce lo chiede l’Europa”, e ad adottare misure economiche draconiane e inutili leggi come la cosiddetta anti-corruzione, sempre su gentile richiesta di Bruxelles, come se una legge “anti-qualcosa” avesse mai risolto il problema di quel “qualcosa” (anti-droga, anti-prostituzione, anti-stalking eccetera), discende la conseguenza che la già fragile democrazia italiana non ha più nulla di liberale e di vagamente paragonabile a uno stato di diritto. Viviamo in un paese dove altri decidono per noi e le campagne elettorali si sono ridotte a insopportabili geremiadi di propaganda e di menzogne, gentilmente veicolate dalle tv pubbliche e private. Gli ultimi venti anni ci dimostrano come sia un finto problema la vittoria di uno o dell’altro schieramento. Lo stato corporativo ormai non si può più cambiare ma solo abbattere.

Gli unici che hanno tentato di fare qualcosa di riformista sono stati i radicali di Pannella, non a caso unico partito veramente “amerikano”, dalla concezione del sistema elettorale a quella della giustizia, vedi non obbligatorietà dell’azione penale e responsabilità civile dei giudici, ma la gente è loro talmente grata che, pur usufruendo delle conquiste civili e politiche che i vari referendum hanno portato, li premia con il due per cento scarso dei voti. E il paradosso è che entrambi gli schieramenti li odiano e li ripudiano per “scarsa affidabilità partitocratica”. Da ultimo il Pd di Bersani che nemmeno ci pensa a farli partecipare alle primarie, o alle secondarie, benchè abbiano da soli fatto cadere prima la giunta Polverini e poi quella Formigoni, con battaglie di legalità e trasparenza iniziate con la questione delle firme false raccolte per le liste del Pdl in Lombardia. Ma il ragionamento dei vari D’Alema, Bindi, Bersani, Vendola e Di Pietro, quelli che Totò avrebbe chiamato “la banda degli onesti”, è semplice: “se ti metti un radicale in coalizione cade l’omertà politica dell’aumma aumma”. E come oggi hanno fatto cadere la Polverini o Formigoni domani potrebbero fare la stessa cosa con un Vasco Errani, un Nichi Vendola o con lo stesso Bersani. Per cui il Paese sembra condannato all’anti-politica da circo di quelli come Grillo e questo presto o tardi darà dei risultati a dir poco devastanti. Roba da emigrare.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:39