Ieri, a meno di 12 ore dall’inizio del terzo dibattito presidenziale, Hillary Clinton ha deciso di fare da capro espiatorio. Si è addossata tutte le colpe per l’uccisione dell’ambasciatore Stevens, a Bengasi, l’11 settembre scorso. E si è esposta al pubblico ludibrio, pur di salvare la reputazione di Barack Obama.
«Quel che era nostro compito, al Dipartimento di Stato – ha dichiarato la titolare della politica estera degli Usa – non consisteva nell’analizzare quel che fosse già avvenuto, ma ciò che stava accadendo e quel che avrebbe potuto accadere. Ed è su questo che ho lavorato molto, giorno e notte, per far sì che potessimo intervenire in cooperazione con altri governi. Abbiamo fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza della nostra gente, il nostro compito principale». E quel preciso compito non è stato svolto al meglio. La Clinton ha assunto tutte le sue responsabilità e porto le sue scuse per non aver garantito sufficiente sicurezza all’ambasciatore Stevens e al suo staff. Non è riuscita a sventare la sua uccisione, né quella di tre uomini al suo servizio.
Come documentato dalla Commissione alla Camera per la Supervisione del Governo, la sicurezza del consolato di Bengasi era stata addirittura sguarnita. Nonostante vi fossero tutti i sintomi di un attacco imminente, in una data sensibilissima, quale è l’11 settembre. Peggio ancora della mancata prevenzione è stata la reazione politica, durante e dopo l’attacco. Durante: l’amministrazione ha deliberatamente deciso di affidarsi alla sicurezza libica. Dunque alle forze dell’ordine di un Paese ancora diviso in fazioni armate e privo di un governo capace di controllare il territorio. Dopo: per due settimane, la Casa Bianca non ha mai parlato di “attacco terroristico”, bensì di “evento spontaneo”.
Ha attribuito tutte le colpe ad un video amatoriale su Maometto, neppure uscito al cinema, ma postato su YouTube e usato come pretesto dagli jihadisti per giustificare le violenze anti-Usa. In quelle due settimane, la Casa Bianca ha commesso, senza rendersene conto, un errore talmente grande che è persino difficile da realizzare: dando la colpa al video ha adottato il punto di vista degli jihadisti. Ha finito per giustificare, quantomeno spiegare, il punto di vista ideologico dei nemici degli Stati Uniti. Addossando ufficialmente le colpe a un video prodotto e girato negli Usa, ha esposto a rischi ancora maggiori la vita di altri cittadini americani. Siamo abituati a leggere queste tesi auto-accusatorie sulla stampa americana “mainstream”, o a sentirle in alcune università. Ma il ruolo di editorialisti e professori è ben diverso da quello della Casa Bianca e di Foggy Bottom, il cui compito principale è difendere l’America.
Quel che sta emergendo, ed è ancora più grave: questa prima tesi dell’amministrazione è falsa. Non c’è stato alcun “evento spontaneo”, ma un attacco terroristico pianificato in anticipo. La causa della violenza a Bengasi non è il video su Maometto, ma l’anniversario dell’11 settembre. Questa “seconda verità” è stata ammessa solo nelle ultime due settimane. E, ancora giovedì scorso, il vicepresidente Joe Biden, nel corso del suo dibattito con Paul Ryan, non ha riconosciuto che la Casa Bianca fosse al corrente della natura terroristica dell’attacco a Bengasi. Ma, da quanto risulta alla Commissione alla Camera, i primi rapporti di intelligence sono arrivati puntualmente nelle prime 24 ore. Obama sapeva, non ha voluto dire. Oggi è la sua segretaria di Stato ad ammettere. “Un insabbiamento peggiore del Watergate”, dice la stampa conservatrice. Almeno, durante lo scandalo di Nixon, quaranta anni fa, non vi sono state vittime. Nel Bengasigate i morti sono quattro.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:33