Enti locali in mano a pm e tecnici

Mani Pulite cancellò dalla scena politica italiana tutti i partiti democratici della Prima Repubblica salvando solo gli eredi del Pci e della sinistra democristiana. Ma non toccò l’impianto istituzionale del paese, che a dispetto del bipolarismo e del maggioritario rimase quello voluto dalla Costituzione del ‘48 della repubblica parlamentare. Dopo vent’anni siamo al salto di qualità. La nuova ondata di inchieste giudiziarie, sostenute da campagne mediatiche incessanti, sta provocando il sostanziale smantellamento non solo di una classe politica fallimentare e totalmente discreditata ma anche di quella parte del sistema istituzionale che riguarda le autonomie locali.

Nelle Regioni e nelle Province (oltre in alcuni grandi Comuni) investite dalla bufera giudiziaria non sono in crisi solo le amministrazioni. È in crisi il principio stesso dell’autonomia e della rappresentanza locale. Non si discute, in sostanza, solo della Polverini e di Formigoni, di Penati o dei presunti sperperatori di denaro pubblico Fiorito e Maruccio. Si contesta la funzione stessa dell’istituzione regionale o provinciale che sia. Al punto che in Parlamento, su iniziativa del governo, parte in tutta fretta una legge di riforma costituzionale per la la riforma del Titolo V della Costituzione che prevede una sostanziale riduzione dei compiti e delle funzioni delle Regioni e delle Province e delle aree metropolitane.

Intendiamoci, l’obbiettivo di questa spinta in parte spontanea ed in parte preordinata del cosiddetto circo mediatico-giudiziario è assolutamente sacrosanta. La riforma ed il ricambio di una classe politica bollita, inadeguata e profondamente corrotta sono indispensabili. Ed è ancora più indispensabile perseguire, insieme alla pulizia di chi ha fallito, anche e soprattutto quella riforma delle autonomie che dovrebbe servire a smantellare la parte più costosa ed inutile dello stato burocratico-assistenziale costruito nel nostro paese nei decenni passati. Ma il fine non può giustificare i mezzi. Perché se i mezzi sono sbagliati si perde totalmente di vista il fine giusto e si arriva addirittura a raggiungere un obbiettivo totalmente estraneo a quello perseguito in partenza.

Questo rischio è fin troppo concreto. Le carcerazioni preventive che si prolungano oltre ogni limite della decenza e dell’umanità sono la classica strada lastricata di buone intenzioni che conduce non al risanamento della classe politica ma alla edificazione di un sistema autoritario e poliziesco. Il rischio di involuzione autoritaria diventa poi addirittura angosciante quando ci si rende conto che per cercare di intercettare la richiesta popolare di rinnovamento il governo tecnico dell’emergenza si assume il compito di innovare la Costituzione procedendo senza alcun tipo di riflessione e nessuna forma di dibattito ad una riforma delle autonomie che cambia l’impianto istituzionale del paese.

Certo, se la classe politica è fuori gioco perché delegittimata dal proprio fallimento, è difficile pensare di poter usare il metodo democratico per realizzare le grandi riforme indispensabili. Ma questo non può giustificare che magistratura da un lato e governo tecnico dall’altro possano smantellare il vecchio impianto costituzionale e costruirne uno nuovo senza il più minimo concorso della volontà popolare. L’esperienza del passato insegna che i dirigismi di stampo autoritario sono rimedi peggiore del male. Il metodo democratico è sicuramente più lento. Ma con tutti i suoi difetti è sempre meglio di ogni tipo di scorciatoia. Tecnica che sia. È bene non dimenticarlo mai.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:06