La diffamazione è una brutta bestia. Ma lo è anche il carcere. Come la mettiamo? Il tema è di quelli centrali per le società aperte e democratiche, per uno stato di diritto. La bilancia delle reazioni al “caso Sallusti” pende per la libertà di stampa. Ma sull’altro piatto non c’è un valore trascurabile in un ordinamento che vorremmo poter definire liberale: l’integrità della reputazione, della propria onorabilità, è sacra quanto l’integrità fisica. È per questo che in talune gravi circostanze il nostro codice considera la diffamazione alla stregua di un delitto. Si esercita violenza nei confronti di una persona anche attentando alla sua reputazione, diffamandola, distorcendone l’immagine, manipolandone storia e idee personali. La nostra reputazione, il nostro “record” personale, fanno parte della nostra identità. Che la “damnatio memoriae”, o la “character assassination”, siano tra le prime armi dei regimi contro i loro nemici interni dovrebbe suonarci come campanello d’allarme. Si parla di “quarto potere” non a caso. La libertà di stampa è un potere capace di schiacciare l’individuo almeno quanto gli altri tre poteri. E quanto più ci addentriamo nell’epoca dei new media, tanto più si può affermare che una calunnia è per sempre. Nel senso che mentre una diffamazione a mezzo stampa, o via etere, un tempo si perdeva nel flusso continuo delle rotative, delle onde radio o delle immagini, tendeva a sbiadire nella memoria collettiva e poteva sì essere recuperata, ma non in modo così semplice, oggi nell’era digitale è sempre disponibile, accessibile a chiunque con un paio di click, in eterno, come un indelebile marchio d’infamia.
Se la diffamazione è un attacco al cuore delle libertà individuali, il carcere lo è per la libertà di stampa, architrave della democrazia. Quest’ultima ha però una rilevanza pubblica, riguarda tutti gli individui, nel senso che libertà e pluralismo nell’informazione permettono ai cittadini di “conoscere per deliberare”. Insomma, non c’è democrazia senza libertà di stampa. Per questo nelle democrazie liberali la sua tutela è prevalente rispetto alla tutela del singolo dalla diffamazione. Il “quarto potere” è così essenziale per difenderci dagli altri tre che preferiamo rischiare di esserne schiacciati come singoli piuttosto che imbavagliarlo.
La possibilità di essere diffamati, di vedere distorte o manipolate la nostra storia e le nostre idee nel pubblico dibattito, è il prezzo da pagare per vivere in una società aperta, libera, democratica. Un prezzo che può, e deve essere attenutato, “calmierato”, con il diritto alla rettifica e pene pecuniarie anche severe, ma non “azzerato” con il carcere.
Purtroppo, come spesso capita in Italia, siamo riusciti nel paradosso di non tutelare né il diritto alla reputazione né la libertà di stampa. Il caso dal quale abbiamo preso spunto dimostra infatti il nostro fallimento sotto ogni punto di vista – giornalistico, legislativo, e infine giudiziario. Un giornale che senza abiurare alle proprie opinioni avrebbe potuto riconoscere l’errore, ma non l’ha fatto, in questo modo prefigurando quell’«incauto disprezzo» della verità che rende la diffamazione un reato anche negli Stati Uniti; un codice che prevede ancora il carcere, in contrasto con le legislazioni delle altre democrazie occidentali e con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma al tempo stesso inefficace nell’imporre vere rettifiche, adeguate nella visibilità e nella durata, pene pecuniarie e professionali rapportate davvero alla recidiva e alla gravità, cioè le uniche sanzioni in grado di riparare il danno. E infine, una condanna che considerando i pochi precedenti è apparsa a molti “politica”: se il querelante non fosse stato un magistrato, e il giornalista di destra, forse non staremmo parlando di carcere.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:08