Era inevitabile che con l’approssimarsi delle elezioni la sinistra italiana, con sfumature diverse tra le sue varie componenti, cavalcasse a spron battuto la cosiddetta questione del lavoro, così come la definisce il segretario del Pd Bersani. Ora, al di là delle singole prese di posizione, mi sembra evidente che sul piano della conservazione dell’esistente, ossia di un sistema pubblico chiamato a sovvenzionare molte aziende decotte, i peggiori parrucconi si trovano proprio nel fronte progressista.
Non solo, sull’occupazione in generale questa gente propone un modello di sviluppo sostanzialmente basato su una staticità ed un immobilismo da far concorrenza alla medievale economia curtense, basata essenzialmente sul baratto. Molto in breve, la concezione che esprimono gli eredi di un comunismo che non sembra mai passare è legata fondamentalmente a due presupposti. In primis l’idea balzana di venire incontro alla domanda di lavoro stabile prescindendo dalle ragioni fondamentali del mercato, inteso come luogo di equilibrio tra ragioni della produzione e interessi individuali.
Quindi, sotto questo profilo, se la domanda di insegnanti eccede l’offerta di impiego, occorrerebbe fare in modo - dilatando la stessa offerta - di venire sempre incontro alle aspirazioni dei singoli. In secondo luogo la sinistra italiana si batte strenuamente per mantenere immutato il livello dell’occupazione sul piano industriale, senza tenere in alcun conto le crescenti evoluzioni produttive che l’era della globalizzazione comporta. Questo significa che una volta che si è cristallizzato un settore economico, a parere della sinistra, lo Stato dovrebbe usare ogni risorsa per garantire la stabilità delle varie aziende, consentendo a chi ci lavora di continuare a farlo nel medesimo luogo e con le medesime mansioni fino al raggiungimento dell’età della pensione.
Ebbene, da questa incredibile distorsione economica, nascono e si giustificano gli enormi sperperi di soldi pubblici con i quali per decenni si sono voluti tenere in piedi carrozzoni altamente improduttivi i cui costi, come dimostra il caso della Carbonsulcis, sono così alti che al contribuente converrebbe pagare uno stipendio ai relativi dipendenti lasciandoli a casa. Da tutto ciò deriva un modello di sviluppo molto simile a quello vigente per 70 anni nell’ex Unione sovietica.
Un modello di sviluppo deciso a tavolino da una burocrazia politico-sindacale che pretenderebbe di eliminare ogni logica legata agli stimoli della concorrenza e dell’evoluzione tecnologica attraverso una sorta di pianificazione economica adottata per decreto legge.
In questo mondo dominato da aziende realmente collettive - nel senso che sono finanziate coi quattrini della collettività - non esistono fallimenti, riconversioni, ristrutturazioni, mobilità o qualunque altra forma di fisiologico riequilibrio economico. In questo sinistro mondo esistono solo cittadini da spremere e consenso da acquisire attraverso la facile demagogia.
Se poi, proprio come avveniva in Urss, ci ritroveremo con industrie che realizzano prodotti obsoleti e con prezzi esorbitanti poco importa. Se non altro l’occupazione sarà salva.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:10