Questa volta hanno davvero superato ogni limite. Non ci sono aggettivi per descrivere, senza scadere nella volgarità, il comportamento dei mainstream media statunitensi in queste ultime 48 ore. Roba da far rimpiangere gli abissi di analfabetismo e cialtroneria in cui è precipitato, da tempo, il mondo dell’informazione nostrana. Con il tragico esito degli assalti alle ambasciate americane in Libia e in Egitto, il presidente americano Barack Obama e il suo segretario di stato, Hillary Clinton, raccolgono i frutti sanguinosi di una politica estera scellerata, che ha provato a camuffare da strategia “leading from behind” un cocktail di pavidità e opportunismo che Washington non conosceva da decenni. Eppure, le prime pagine dei giornali e i titoli dei notiziari trasmessi dai network televisivi sono unanimi: è tutta colpa del candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney.
Sembra impossibile, almeno a chi ancora non ha venduto il cervello all’ammasso dell’idolatria obamiana. Eppure è proprio così. Ma facciamo un passo indietro: dopo il primo assalto all’ambasciata del Cairo, Romney diffonde un comunicato stampa per condannare la reazione politicamente corretta della diplomazia Usa che, invece di condannare gli assalitori, “chiedeva scusa” ai fondamentalisti islamici, presunti offesi per la circolazione di un video anti-Maometto. Un inchino ingiustificato, quello dell’ambasciata americana al Cairo, sconfessato poi dalla stessa Casa Bianca. E criticato, con forza, anche dal candidato repubblicano. Il comunicato di Romney, però, è sotto “embargo” fino alla mezzanotte di martedì (11 settembre), per non turbare la commemorazione dell’attacco terroristico che undici anni fa ha sconvolto gli Stati Uniti e tutto il mondo libero. Una misura di precauzione ragionevole, che però i media amici di Obama (cioè quasi tutti) hanno utilizzato per dare forma ad una spregevole operazione di ribaltamento della realtà. Arrivata la scadenza dell’embargo, infatti, si era già consumata la strage di Bengasi. E la dichiarazione di Romney - pubblicata contemporaneamente all’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens, di due marines e di un funzionario - è sembrata un cinico tentativo di “politicizzare” una tragedia in corso.
Poco importa, agli adoratori della “perla nera”, che il comunicato di Romney si riferisca agli eventi del Cairo e non a quelli di Bengasi. I media lo crocifiggono per aver tentato di capitalizzare politicamente una strage ancora non avvenuta. E con ogni probabilità avrebbero fatto lo stesso, qualunque fosse stata la risposta di Romney. A meno che - come scrive Guy Benson su Townhall.com - «non si fosse messo ad applaudire l’amministrazione Obama, per poi tornare a sedere in un angolo, in silenzio». L’operazione è chiara, come palese è il suo obiettivo: sviare l’opinione pubblica dalle responsabilità di una Casa Bianca finora giudicata (a torto) appena sufficiente soltanto sui temi della politica estera. Il terrore di possibili ripercussioni sulla campagna elettorale in corso ha preso il sopravvento, portando a questa reazione scomposta e, francamente, ridicola.
I fedeli obamiani, però, potranno pure aver fatto guadagnare al presidente un paio di “news cycle”, ma quando la nebbia della disinformazione si sarà diradata, ad attenderli ci sarà la dura realtà. E gli elettori americani non potranno non notare le inquietanti analogie tra il 2012 e il tramonto della presidenza di Jimmy Carter. In economia, con lo stallo della crescita e la disoccupazione crescente, ma anche in politica estera, con l’appeasement ad ogni costo e l’impotenza di fronte all’arroganza del fondamentalismo islamico.
Allora, se il virus dell’europeizzazione ancora non ha preso il sopravvento, agiranno di conseguenza. Licenziando la sedia vuota di Barack a novembre, come hanno fatto con Carter nel 1980. «Si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, ma non tutti per sempre»: a dirlo era John Fitzgerald Kennedy. Altro che Obama.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:30