I nuovi liberali a rischio ghetto

Auguri ai liberali di centro. A quelli delle associazioni che si fonderanno a novembre con l’organizzazione messa in piedi dal pezzo di Confindustria che continua a fare capo a Luca Cordero di Montezemolo. Ed anche a quelli delle microfratture del micro e vecchio Pli che si propongono di esibire l’antico blasone per partecipare, con un qualche ruolo ed un qualche riconoscimento, alla rifondazione dell’Udc preannunciata ormai da più di un anno da Pierferdinando Casini.

Gli auguri sono doverosi. Perché in un paese che continua ad essere dominato dall’egemonia politica e culturale degli statalisti autoritari e dirigisti dei cattolici progressisti e dei post-comunisti, ogni fermento liberale, da qualsiasi parte si manifesti e possa prendere forma, va salutato con piacere e visto come una pianticella da sostenere ed alimentare sempre e comunque. Ma accanto agli auguri va anche aggiunta una considerazione preoccupata sui vizi d’origine con cui nascono queste aggregazioni liberali e sulla prospettiva di marginalizzazione che possono derivare da tali vizi.

I vizi in questione non sono nuovi. Anzi, sono quelli che nel secondo dopoguerra italiano hanno già prodotto effetti sulla trasposizione politica delle idee liberali nel nostro paese. E poiché questi effetti sono stati pesantemente negativi non si può fare a meno di ricordarli. Per mettere in guardia chi rischia di subirne le nuove conseguenze.

I liberali italiani sono stati confindustriali fino all’inizio degli anni ’70. Successivamente, visto che i vertici dell’associazione degli imprenditori aveva scelto la strada della concertazione corporativa con le grandi confederazioni sindacali, sono diventati più autonomi dai poteri forti ed esclusivamente preoccupati di conservare un qualche ruolo di potere e di governo nel quadro politico del paese.

In entrambe le fasi, esaurita la spinta propulsiva di Croce e di Einaudi, hanno svolto il ruolo di pattuglia elitaria, portatrice di interessi ristretti, particolari se non addirittura personali, provvista di una identità culturale sempre più sbiadita (la scoperta di Popper, Mises, Hayek, Novak è dei pochi accademici liberali rimasti nelle università e non dei politici liberali) e, soprattutto, priva di un qualsiasi radicamento nella società italiana.

Scambiare Montezemolo per Costa e Casini per il Craxi del pentapartito, anche se nel frattempo gli eventi storici internazionali hanno imposto anche alla cultura refrattaria del nostro paese di prestare attenzione alle ragioni della libertà, rischia di condannare i liberali italiani alla marginalizzazione, più o meno elitaria, anche nel terzo millennio. L’augurio, ovviamente, è che tutto questo non avvenga. Che i neo-confindustriali di Montezemolo non diventino nel 2013 l’equivalente, con meno dell’1 per cento, dell’Alleanza Democratica degli anni passati. E che l’operazione di rilancio delle diverse componenti liberali con Casini non si risolva nel mercimonio di uno o, al massimo, due posti in lista.

Attenzione! Denunciare un pericolo del genere non significa auspicare una sorta di fusione delle varie anime liberali esterne al Pdl a quelle presenti nel partito berlusconiano. Queste ultime, rispetto alle altre, hanno il vantaggio di avere già delineato un ruolo. Ma anche per loro vale la stessa raccomandazione. Quella di evitare la marginalizzazione sfuggendo alla logica elitaria e puntando a rappresentare non interessi particolari e personali ma quelli generali della maggioranza della società italiana.

Il modello di riferimento, allora, non può essere quello delle due fasi del secondo dopoguerra. Ma quello liberale e nazionale della formazione dello stato unitario. In quel passato, e solo in quel passato, c’è il futuro delle idee liberali in Italia.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:25