Con un vago odore pre-elettorale, in questo arroventato scorcio d’estate è ripreso il tomentone governativo sulla crescita. Tanto all’interno che all’estero, Monti & soci si sforzano di elaborare documenti e prese di posizione in favore della ripresa economica, quasi che quest’ultima si potesse ottenere a tavolino. È tutto un fiorire di iniziative e misure annunciate il cui vero intento sembra quello di rassicurare un paese letteralmente stremato dalla crisi. Anche perchè a credere nei miracoli tecnici oramai sono rimasti ben pochi in Italia.
Sebbene, all’interno di un sistema sempre più infettato da visioni collettivistiche e keynesiane, l’idea di far crescere il Pil e l’occupazione attraverso un atto deliberato della politica riscuota sempre molto credito, soprattutto tra quei partiti e quei sindacati che da sempre credono nell’azione salvifica dello Stato in economia. Ma in realtà, così come dovrebbe insegnarci l’esperienza storica, il presupposto di creare sviluppo attraverso poderose iniezioni di soldi pubblici non funziona per tutta una serie di ragioni le quali, nell’ambito di un breve commento, non sarebbe possibile approfondire. Posso solo dire, parafrasando la signora Thatcher, che in primo luogo questa ricetta è profondamente sbagliata perchè prima o poi i soldi degli altri finiscono, lasciando col sedere per terra tutti quelli che vivono di lavori pubblici inventati. È questo il classico errore prospettico che commettono coloro i quali immaginano lo sviluppo dell’economia solo attraverso le dinamiche della domanda; praticamente gran parte del nostro succitato ceto politico e sindacale. In sostanza si ritiene che pompando carta moneta nelle tasche dei cittadini-consumatori si crei un duraturo effetto di trascinamento dell’intera economia, provocando una crescita della ricchezza generale ed un aumento nell’offerta di posti di lavoro. Eppure, visto come vanno le cose nel nostro paese da parecchi decenni, l’azione della mano pubblica nel sostenere questa politica è sempre più evidente, testimoniata dal record mondiale nella spesa, ma il sistema appare fondamentalmente fermo da almeno tre lustri. In pratica, tolta l’inflazione, il reddito pro-capite è lo stesso del 1997.
La verità è che sono proprio le politiche redistributive, caratterizzate da una fiscalità crescente, ispirate dalla sinistra che si trovano alla base delle nostre attuali difficoltà economiche. In primis perchè le stesse tendono a disarticolare l’intero sistema economico, scoraggiando la nascita di nuove imprese produttive ed incentivando la spinta parassitaria di chi ritiene di sbarcare il lunario ponendosi a carico dell’intera collettività.
Per dirla con una battuta, tutto ciò restringe la platea dei veri produttori di ricchezza a tutto vantaggio degli eserciti di cittadini che vivono praticamente di tasse.
Appare, pertanto, evidente che se il nodo scorsoio che strangola lo sviluppo economico dell’Italia è composto dal micidiale combinato disposto di un eccesso di intervento pubblico e, conseguentemente, di imposte, scrivere documenti e blaterare sermoni in favore della crescita serve a ben poco. Occorrebbe altresì seguire la strada di quei paesi europei che hanno ripreso a crescere, tagliando la spesa pubblica e le tasse.
Da questo punto di vista sarebbe utile ricordare che la Svezia, patria del welfare a cui i nostri incalliti statalisti spesso si richiamano, nel corso degli ultimi anni ha tagliato la spesa pubblica di oltre 18 punti. Tant’è che questo Paese è interessato da tempo da una tumuoltuosa espansione. Ma ciononostante da noi si continua a perseguire un modello di sviluppo keynesiano e dirigista che, professori o meno, non potrà che portarci al disastro. Altro che sviluppo!
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:32