Nelle lunghe discussioni estive sulle larghe intese c’è un gigantesco “non detto” e una variabile che nessuno dei principali segretari di partito si è preso la briga di considerare. No, non si tratta di Beppe Grillo ma dell’annosa quanto irrisolta “questione settentrionale”. Per anni, con alterne fortune, a farsene carico è stata la Lega Nord. Trattata da molti come un fenomeno da baraccone è stata in verità il catalizzatore delle paure, delle ansie, del malcontento che pervade, quasi fosse una costante, la spina dorsale produttiva del nostro paese. Non c’è imprenditore, artigiano, operaio, persino impiegato pubblico che non ammetta che sì, forse i metodi un po’ spicci andrebbero rivisti, ma che il nocciolo del messaggio leghista ha un suo senso che non può essere ignorato.
Il Nord del paese si sente nella migliore delle ipotesi sotto-rappresentato, mentre nella peggiore percepisce la sua appartenenza allo stato italiano come un pegno ormai troppo caro e in grado di stritolare, a colpi di burocrazia e oppressione fiscale, le potenzialità di territori che sono per ricchezza prodotta ai vertici in Europa e nel mondo. La politica dei palazzi romani, anche quella che si pratica tra gli ombrelloni di Capalbio o Forte dei Marmi, fatica a comprendere questo dato. E il dibattito, sterile ed evanescente, sulle larghe intese post-Monti è la perfetta cartina da tornasole di questa incapacità.
Partito Democratico, Udc, pezzi importanti de Il Popolo della Libertà hanno dimostrato di aver completamente perso il treno giusto per parlare a questa parte dell’Italia. Non sono credibili perché quello che le piccole e medie imprese (e i loro impiegati) si aspettano oggi non è l’ennesimo vertice sulla legge elettorale o l’ultima proposta di alleanza per gestire il prossimo parlamento. C’è un paese reale fuori da Montecitorio che chiede soluzioni concrete in grado di liberare le forze vive della nostra società e di rimuovere una volta per tutte le zavorre statali che ne frenano lo sviluppo. A queste istanze la politica romana risponde con feste di partito dal sapore antico o sfilate di sedicenti big della politica in grado di parlare per ore senza dire nulla di concreto.
E tutto questo dopo aver rinunciato definitivamente ad ogni tentativo di modernizzazione e avendo abdicato al proprio ruolo in favore del taumaturgico “governo dei tecnici”. Eppure dieci mesi di Monti e Fornero ci hanno consegnato un paese con un mercato del lavoro peggiore di quello pre-riforma, un fisco ancor meno amichevole nei confronti del cittadino e un pregiudizio anti-imprenditoriale che appare l’unica cifra reale espressa da Palazzo Chigi.
In un contesto come questo si aprono praterie politiche che il centrodestra non può ignorare. Primo: perché il centrodestra ha governato e governa (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia) anche grazie al consenso che si è formato su questi temi. Secondo perché non esistono “larghe intese” senza il Nord.
Che le istanze dei ceti produttivi della valpadana si esprimano a colpi di soli celtici o per altre vie è comunque imprescindibile ripartire da loro. E se vi fate un giro tra le feste di partito che si celebrano al di sopra della linea del Po e ascoltate gli umori della base capirete che il vaso è colmo di nuovo e che, Lega o non Lega, sarà difficile convincere questa parte di paese che la ricetta buona per la crescita è ancora quella Made in Bocconi.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:34