Il caso Ingroia-Napolitano ha riproposto la necessità di una nuova normativa sulle intercettazioni telefoniche. A sua volta, il caso Ilva impone di riconsiderare il tema generale del rapporto tra potere esecutivo ed ordine giudiziario. Se al governo ci fosse stato ancora Silvio Berlusconi, è probabile che il Quirinale avrebbe accuratamente evitato di entrare in rotta di collisione con la procura di Palermo per non dare l’impressione di giocare politicamente di sponda con il Cavaliere. Ed è sicuro che la vicenda dell’Ilva sarebbe stata trasformata, dal coro compatto dei media conformisti italiani, nell’ennesima occasione per lanciare la solita campagna di denigrazione nei confronti di un centrodestra incapace di garantire lavoro e salute alla popolazione di Taranto e capace dolo di entrare in contrasto con una magistratura dipinta con l’aureola salvifica e vendicatrice.
Sono otto mesi, però, che Berlusconi non esercita le funzioni di Capo del governo. E l’esplosione del caso Napolitano e del caso Ilva, in un campo sgomberato da qualsiasi pretesto o motivo di strumentalizzazione, rende fin troppo evidente che il problema della giustizia non è una invenzione personale del Cavaliere ma una delle emergenze più gravi del paese, dalla cui soluzione non dipende solo la tutela dei diritti individuali dei cittadini ma la stessa possibilità di uscire dalla crisi economica e spezzare la spirale del declino.
Ma sopra ogni forma di dialettica politica o teorica incombe un problema concreto gigantesco. Che è quello del lavoro e del futuro materiale dei lavoratori degli stabilimenti siderurgici dell’Ilva. Non solo quelli di Taranto, ma di tutti gli altri impianti dislocati nelle altre zone del paese. La partita ingaggiata tra il governo e la “dura” gip, Paola Todisco, in altri termini, non riguarda più solo il rapporto tra politica e magistratura ma anche la sopravvivenza del settore siderurgico nazionale e, di conseguenza, dei lavoratori e delle loro famiglie.
La sorte di migliaia di persone fisiche dipende dall’esito del braccio di ferro in atto tra Mario Monti e la giudice per le indagini preliminari tarantina. E questa sorte va decisa subito. Non al termine della campagna elettorale o, peggio, nel corso della prossima legislatura. Spetta al governo tecnico, in sostanza, di trovare uno sbocco immediato alla vicenda Ilva. E di farlo sapendo che qualunque sia la soluzione adottata si trasformerà inevitabilmente in un precedente che non potrà non incidere sulla definizione di quelli che dovrebbero essere i nuovi rapporti tra i poteri dello stato e l’ordine giudiziario.
Nessuno dubita sulla necessità che sulla interpretazione rigida ed oltranzista delle norme di legge prevalga la ragione di stato. Cioè che la chiusura degli stabilimenti venga scongiurata, l’azione di risanamento sanitario ed ambientale definita ed avviata con la massima celerità ed i posti di lavoro difesi e salvati. Ma è bene che il governo non compia la sua azione indispensabile attraverso sotterfugi. È arrivato il momento di chiarire una volta per tutte che in una democrazia liberale ed in uno stato di diritto l’interpretazione della legge va attribuita, in ultima istanza, a chi le leggi è legittimato dal consenso popolare a farle e non a chi le deve solo applicare. Il caso, in definitiva, vuole che spetti ad un governo tecnico e non ad un governo politico fissare che, per salvare il paese, diventa indispensabile stabilire un precedente che indirizzi la prossima ed indispensabile riforma della giustizia a fissare la regola che la democrazia precede e non segue il diritto. Cioè che la politica non può più essere subordinata alla magistratura.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:27