Alcuni germi si instillano nel tessuto sociale e civile di un paese, e ne attraversano lo spazio pubblico contagiando chi vi opera quasi senza che l’interessato se ne accorga. È stato il caso di Tangentopoli, che ha reso il protagonismo ciarliero di pm e giudici e la celebrazione delle inchieste in piazza non solo un’abitudine, ma anche un appassionante passatempo di chi al bar snobba le chiacchiere sul calcio ritenendole affare da bifolchi. E quando un’inchiesta che finisce in “opoli” si fonde con il rutilante mondo del pallone, il mix che ne risulta è capace di stordire un toro. La sentenza della Commissione disciplinare della Fgic sull’allenatore Antonio Conte verrà iscritta negli annali come un caso di scuola.
La vicenda è nota. Un giocatore del Siena, Filippo Carobbio, accusa dirigenza e allenatore (Conte, per l’appunto) di aver combinato il risultato di una partita, avvertendo la squadra di acconciarsi agli accordi presi. Unico degli interessati a sostenere questa versione dei fatti, Carobbio inguaia l’allenatore. Che viene deferito dalla procura sportiva nonostante la mancanza di riscontri e l’assenza di prove su movimentazioni anomale di denaro. La giustizia sportiva ha tempi contingentati, e l’accusato ha l’onere della prova. Prova, qualora il fatto effettivamente non susstesse, assai complicata da produrre. Alla fine del procedimento lampo (passato per la poco lungimirante scelta del noto patteggiamento), la Disciplinare emette una sentenza di colpevolezza (fornita ai giornali per i titoli di prima pagina con un paio di giorni di anticipo) condannando Conte. Ammorbidendo arbitrariamente il reato del quale è accusato dall’unico teste del pm, quello di frode sportiva, tramutandolo in omessa denuncia. Dieci mesi di stop – un’intera stagione sportiva – una carriera infangata. Se tutto ciò non bastasse a farne un processo indiziario, basta dare una veloce lettura alle motivazioni della sentenza.
I giudici hanno ritenuto Carobbio «assolutamente attendibile», pur condannando Conte per un reato che differisce da quanto sostenuto dal suo unico accusatore. Hanno dunque ritenuto «poco credibile» che l’allenatore non fosse a conoscenza del fraudolento operato di alcuni suoi giocatori. Una probabilità che è valsa una condanna. E che si è fondata su un assunto lombrosiano: alcuni dirigenti dello staff del Siena hanno affermato come Conte «fosse un accentratore». «Ecco perché – dicono i giudici – era con tutta probabilità a conoscenza dei fatti». Chiaro no?
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:20