L’aspetto più singolare di tutte le discussioni e le polemiche degli ultimi giorni sulla riforma elettorale riguarda il dato dall’assioma su cui ha poggiato l’intero complesso di scontri, minacce, insulti, trattative ed aperture verso possibili compromessi. Questo assioma, che non ha bisogno di verifiche di alcun genere visto che viene considerato comunque certo ed immodificabile, è rappresentato dalla certezza assoluta che il Pd risulti in primo e più votato partito nelle prossime elezioni.
E che, di conseguenza, il suo segretario Pierluigi Bersani, sia lo scontato ed insostituibile successore di Mario Monti alla presidenza del Consiglio. Non a caso la reazione furibonda dello stesso Bersani alle forzature del Pdl sulla riforma elettorale sono state motivate dalla crozziana preoccupazione del “questi mi vogliono fregare” (attenzione, non “ci” vogliono fregare ma “mi” vogliono fregare). Come se fosse ormai scritto sulle tavole della legge divina che la prossima legislatura debba essere segnata dall’ingresso trionfale dell’attuale segretario del Pd nella stanza dei bottoni di Palazzo Chigi in qualità di leader del primo partito votato dagli italiani e gratificato da un qualsiasi premio di maggioranza. E sempre non caso anche il gioco delle mosse e delle contromosse di tutti gli altri attori della commedia recitata sulla riforma elettorale, quello di Pierferdinando Casini e dello stesso vertice del Pdl, è sempre e comunque ruotato attorno al pilastro della certezza assoluta che il partito di Bersani conquisterà in ogni caso la palma di partito di maggioranza relativa.
L’assioma, si sa, poggia sul risultato principale e ricorrente dei sondaggi degli ultimi mesi, quello che attribuisce al Pd la palma di partito più forte con un 25 per cento che supera di almeno cinque punti fissi il secondo che supera di poco l’asticella del 20 per cento e che una volta è il Pdl e quella successiva (o viceversa) è il movimento di Beppe Grillo. Tutti i sondaggi, naturalmente, indicano che le quote attribuite ai singoli partiti convivono con la quota dell’oltre quaranta per cento riguardante. Ma il fatto che poco meno della metà degli elettori non sappia ancora se rimanere nel non voto o ritornare a votare per qualche formazione politica non intacca in alcun modo la certezza assoluta dell’assioma sulla vittoria del Pd e sul destino di Bersani di diventare il prossimo capo del governo dopo l’esperienza poco trionfale di Mario Monti. In realtà questo assioma non è poi così granitico come viene dipinto. Ricorda molto l’assioma che aveva guidato alla sconfitta rovinosa la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto nel ‘94 ed aveva portato ad un pareggio rovinoso la coalizione dell’Ulivo prodiano nel 2006.
Ma, soprattutto, sembra essere una delle conseguenze più vistose della tendenza alla “sindrome della ricottina” che colpisce i post-comunisti quando si sentono sulla cresta dell’onda. E li porta spesso a fare la fine del contadino che sognava di diventare ricco vendendo la ricotta per acquistare un cavallo, vendere il cavallo per acquistare una casa, vendere la casa per acquistare un podere e, sognando la ricchezza, finiva dentro un fosso perdendo la ricottina e rinviando le ambizioni a data da destinarsi. Naturalmente può anche essere che da oggi a quando si andrà a votare i sondaggi rimangano immobili e che il risultato delle elezioni sia quello della ricotta di Bersani. Ma dice niente il fatto che il Pd sia fermo al 25 per cento, quota fisiologica del propri militanti, da mesi e mesi e non abbia guadagnato un solo punto dalla flessione del Pdl? Dice nulla la circostanza che la distanza tra il Pd e Grillo ed il Cavaliere sia sempre di cinque o sei punti che in una qualsiasi campagna elettorale non rappresentano un ostacolo insormontabile a qualche recupero?
E non lascia qualche perplessità la constatazione che se anche si mettesse in movimento il solo dieci per cento del quaranta per cento attuale di indecisi finendo nella propria collocazione naturale di una protesta di destra o di una protesta anarcoide e grillina, il Pd sarebbe affiancato da Pdl e Cinque Stelle e magari bruciato da una di queste formazioni proprio sul filo di lana elettorale? Ipotesi assurda? Può essere. Ma al posto di Bersani un pizzico di preoccupazione di finire con la ricotta di Palazzo Chigi nel fosso della realtà bisognerebbe averla.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:09