Italia: o si taglia o si fallisce

Con la borsa in caduta libera e lo spread che ha nuovamente superato la soglia assai critica dei 500 punti, la riapertura settimanale dei mercati finanziari sembra confermare le più fosche previsioni sul futuro prossimo dell’Italia. E a nulla può servire la ridicola cantilena contro la presunta speculazione cinica e bara per scongiurare una bancarotta che ogni giorno sembra più probabile.

Stiamo vivendo innanzitutto una colossale crisi sfiducia internazionale che, al pari di altri paesi canaglia come il nostro, si basa su elementi reali e non su presunti complotti orditi a tavolino da qualche immaginario consorzio di banchieri. In primis, il debito pubblico ha superato la soglia dei 2.000 miliardi di euro, toccando il 123,3 per cento del Pil. A questo si aggiungono le stime più autorevoli, le quali sono tutte corrette al ribasso per il 2012, con un calo del reddito nazionale che potrebbe sfiorare il 3 per cento. Ed il tutto all’interno di una cornice economica dominata da una spesa pubblica che ha raggiunto il 55 per cento della ricchezza, alimentata conseguentemente da una fiscalità a dir poco folle.

Ora, al di là delle chiacchiere, mi sembra evidente che, all’interno di una devastante crisi mondiale, il nostro sistema offra ben poche garanzia circa la solvibilità del colossale debito pubblico. Soprattutto a causa di una linea politica che dura da decenni, e quasi per nulla modificata dai tecnici al governo, dominata da un crescente aumento dell’intervento dello stato. Intervento che, in sostanza, ha prodotto una progressiva crisi strutturale della nostra economia, caratterizzata da molti anni di sostanziale stagnazione. Ed è per questo motivo che da subito abbiamo criticato il “rigore” montiano ottenuto in gran parte dal lato delle entrate.

Il sospetto, che per l’appunto sembra sempre più confermarsi attraverso i riscontri e le previsioni, era che raschiando il barile delle tasse si provocasse un ulteriore avvitamento del sistema economico, appesantendo il clima di sfiducia che già aleggiava sul nostro paese e, ovviamente, provocando l’attuale sfondamento dello spread. Dunque, sembrerebbe ancor più urgente oggi dare dei forti segnali nella direzione di quella necessaria diminuzione del perimetro pubblico e del suo enorme gravame finanziario, il quale ha oramai superato gli 830 miliardi all’anno. In altri termini, solo tagliando con l’accetta la spesa pubblica si darebbe il giusto segnale agli investitori in fuga dai nostri titoli.

E sebbene si possano comprendere le enormi difficoltà che si incontrano in una democrazia nel portare vanti una linea rigorista sul fronte delle uscite, nondimeno se si spiega ai milioni di interessati che sarebbe preferibile rinunciare a qualcosa rispetto ad un catastrofico default dello Stato, forse la cosa potrebbe servire a tacitare in parte le inevitabili proteste sociali inscenate dai collettivisti di tutti i colori politici. Altrimenti, se chi oggi occupa la stanza dei bottoni e chi ne sostiene l’azione in Parlamento ritiene di poter continuare a vivacchiare attraverso la pagliacciata di una spending review finalizzata a risparmiare sulle briciole fa molto male i suoi calcoli. Siamo, infatti, nella analoga situazione che costrinse alle dimissioni l’ultimo esecutivo Berlusconi, in cui la forte risalita dei tassi d’interesse sul debito di questi giorni preannuncia una crisi di liquidità ancor più devastante di quella scongiurata alla fine del 2011.

Ed in una siffatta, drammatica eventualità ogni ragionamento basato sulla tanto decantata coesione sociale non può che condurre al disastro. O si taglia o si fallisce.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:29