Lo strano precedente di Napolitano

Per evitare un pericoloso precedente che avrebbe potuto ledere le prerogative del proprio successore. Questa è la fin troppo comprensibile e giustificabile spiegazione di Giorgio Napolitano, che per l’occasione si è rifatto ad una preziosa indicazione del proprio lontano predecessore Luigi Einaudi, alla decisione del Quirinale di investire la Corte costituzionale della scelta della procura di Palermo di mettere sotto controllo i telefoni della presidenza del Consiglio e non distruggere le relative intercettazioni telefoniche. 

Se avesse subito passivamente l’azione dei magistrati palermitani, avrebbe tacitamente avallato la tesi secondo cui nulla e nessuno può opporsi alla “ricerca della verità” da parte di un pubblico ministero. E, oltre a sancire di fatto la fine dell’equilibrio dei poteri dello stato di diritto e fissare per prassi la totale supremazia dell’ordine giudiziario sui poteri legislativo ed esecutivo e sulle prerogative del presidente della Repubblica, avrebbe messo il proprio successore al Quirinale nella triste condizione di presidente dimezzato ed esposto ai raid giudiziari di qualsiasi pm in cerca di notorietà e fortuna.

Non è facile prevedere l’esito della iniziativa di Napolitano. Anche nella Corte costituzionale si annidiano dei nascosti sostenitori di una sorta di teocrazia giudiziaria fondata sul predominio assoluto ed incontrastato della casta delle toghe. Ma è fin troppo evidente che, se per caso la Consulta dovesse dare ragione al Capo dello stato, i magistrati della procura di Palermo contro cui si è mosso il Quirinale si troverebbero costretti a compiere una rapida marcia indietro riconoscendo ciò che di fatto tendono a negare. Cioè che in uno stato di diritto la “ricerca della verità” si può svolgere solo all’interno delle regole previste dallo stato di diritto stesso.

L’azione di Napolitano tesa ad evitare un precedente è destinata a diventare, quindi, essa stessa un importante precedente nella storia dell’Italia repubblicana. Perché chiedere alla Corte costituzionale di fissare dei paletti che preservano le prerogative del Capo dello stato dalle iniziative delle procure significa stabilire che dei limiti all’azione dei pubblici ministeri particolarmente esuberanti e tendenzialmente convinti di essere “legibus soluti” ci debbano comunque essere. 

Con il suo intervento, dunque, Napolitano non si è limitato a preservare i propri successori da possibili esondazioni giudiziarie ai danni della Presidenza della Repubblica. Ha di fatto riaperto la discussione sulla necessità di una riforma della giustizia che serva a ristabilire i confini tra l’ordine giudiziario ed i poteri dello stato. E ad impedire che la repubblica democratica possa diventare, attraverso l’uso indiscriminato dell’arma mediatico-giudiziaria, una repubblica ispirata al più radicale khomeinismo giudiziario. È facile rilevare e prevedere come sulla scia del Capo dello stato si riaccenda adesso la polemica sull’uso delle intercettazioni e la richiesta di una normativa che fissi dei limiti per la salvaguardia dei diritti di libertà inalienabili dei cittadini. Ma il problema non sono le intercettazioni. È la giustizia. Che o torna ad essere giusta ed in linea con le regole dello stato di diritto. O è ingiusta e strumento non solo di oppressione ma anche di impedimento all’uscita dalla crisi economica.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:22