All'Italia serve una spending revolution

A quanto pare il sottosegretario dell’Economia e delle Finanze Gianfranco Polillo ha scoperto l’acqua calda. Si è accorto che nel mare magnum dei settori pubblici esiste una vera e propria giungla retributiva, in cui chi occupa i vertici di molti enti e aziende, in particolare quella partecipate, gode di stipendi e privilegi da nababbo. In sostanza, si tratta di una vecchia questione che, a mio parere, non può essere affrontata con qualche leggina ad hoc, bensì attraverso una revisione strutturale delle competenze e delle attribuzioni pubbliche a qualunque livello amministrativo.

Ciò, in primo luogo, perchè il sistema politico-burocratico che soffoca come una gramigna il Paese reale troverebbe sempre una strada obliqua con cui aggirare qualsiasi norma che restringesse il relativo spazio nella gestione e nel controllo delle risorse della collettività. 

Prova ne è, proprio in merito alle citate società partecipate, che nonostante il blocco delle assunzioni pubbliche in vigore da alcuni lustri, in pochi anni in Italia sono proliferate molte Spa controllate dagli enti locali. 

Si parla di oltre 6.000 nuove aziende, le cosiddette piccole Iri, sorte come funghi a partire dal 2.000, nelle quali si è potuto far man bassa di poltrone retribuite profumatamente e di posti di lavoro per accontentare le varie clientele locali. 

Ed il tutto si continua a svolgere in totale deroga alla legislazione vigente, in quanto questi carrozzoni risultano formalmente privati, sebbene operino sotto il comodo ombrello delle prerogative pubbliche. 

D’altro canto, anche i regimi del socialismo reale avevano la pretesa di regolamentare l’efficienza e le retribuzioni di chiunque svolgesse una attività economica, e si è visto con quali esiti catastrofici. 

In termini generali, si può dire che, al di fuori delle leggi del mercato, è praticamente impossibile ottenere per decreto lo stesso equilibrio che si avrebbe laddove una struttura produttiva fosse regolata dalla necessità di far quadrare i  conti sulla base dei propri risultati operativi.

Immaginiano, ad esempio, di gestire il bar sottocasa con gli stessi criteri di una azienda pubblica, anziché con quelli di una normale attività privata di mercato. In luogo di un solo barman, se ne potrebbero assumere un numero variabile, a seconda delle esigenze di chi ambisce ad occupare un posto al sole, così come troppo spesso accade oggi nelle strutture pubbliche. Ma nonostante l’esubero, è possibile che per prendere un caffè occorrerebbe dotarsi del fatidico numeretto e fare la proverbiale fila, al pari di ciò che avviene in tanti carrozzoni di Stato, poichè i vari addetti sarebbero sicuramente in molte altre faccende affaccendati. 

Ora, seppur si tratti di un paradosso, questo è esattamento ciò che avverrebbe se il settore della ristorazione veloce venisse nazionalizzato, in nome della solita sinistra demagogia che sta mandando al fallimento l’intero pianeta. Infatti, laddove non esista un effettivo controllo della produttività, finalizzato a regolare il numero dei soggetti impiegati e i loro stipendi, qualunque criterio stabilito per via politico-burocratica non può che creare gravi inneficienze e distorsioni, provocando la rovina economica e finanziaria del relativo campo di attività. 

Per questo motivo, ove sia possibile, occorre liberalizzare interi settori -pensiamo ad esempio alla miriade di servizi gestiti a livello locale delle suddette piccole Iri- onde ottenere anche quel tanto auspicato controllo nelle retribuzioni, che sembra stare molto a cuore al sottosegretario Polillo. Solo quando una azienda rischia in proprio, senza ciambelle di salvataggio pubbliche, è possibile riportare sulla terra le pretese di chi ci lavora. Al contrario, invece, la trita pretese di introdurre criteri privatistici anche nei trattamenti economici, nell’ambito del nostro strisciante sistema collettivizzato, somiglierebbe solo al gioco delle tre carte, senza produrre alcun risultato concreto.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:34