I liberali di sinistra alzano la voce

È probabile che ai cosiddetti “montiani” del Pd non interessi un bel nulla della continuità anche nella prossima legislatura della politica economica dell’attuale governo. È più facile che a loro interessi preparare il terreno alla discesa in campo per le primarie di Matteo Renzi dando per tempo dei contenuti programmatici solidi allo sfidante del segretario del partito Pierluigi Bersani.

È comunque sicuro, però, che qualunque sia la motivazione reale della sortita dei “montiani”, la loro iniziativa abbia identificato con assoluta precisione il vero punto di rottura esistente all’interno del Pd e dell’intera sinistra. Un punto di rottura che non riguarda i nomi dei contendenti della candidatura a premier alle prossime elezioni ma che tocca direttamente la frattura incolmabile che dentro lo schieramento progressista divide i neo-liberali dai post-comunisti. 

Può sembrare irrealistico pensare che nel Pd e nella sinistra ci si possa dividere per questioni ideologiche. E, soprattutto, che queste divisioni di natura ideologica riguardino non le distinzioni tra socialismo post-comunista e riformismo di stampo socialdemocratico ma la differenza abissale tra liberali e non liberali . Ma la realtà è proprio questa. I “montiani” del Pd, e non solo loro visto che sulle stesse posizioni culturali sono collocati esponenti di altre correnti, sono consapevolmente o inconsapevolmente  dei liberali. Magari d’impostazione dirigista, magari dei socialisti liberali, magari dei sostenitori (come Monti ) dell’economia sociale di mercato di stampo “renano”, tutti comunque convinti della necessità di riformare profondamente lo stato sociale degenerato in stato burocratico-assistenziale. Gli altri, a partire dal segretario Bersani e dal vecchio gruppo dirigente significativamente rappresentato da Massimo D’Alema fino ad arrivare ai giovani alla Fassina, sono dei socialisti statalisti che invece hanno come tratto culturale comune quello della difesa ad oltranza dello stato sociale così come è stato costruito in Europa in generale ed in Italia in particolare negli ultimi sessant’anni.

La forte tradizione nata con il vecchio partito-chiesa del Pci e rimasta pressoché intatta nelle diverse  reincarnazioni successive dell’ “avanguardia” politica dei lavoratori spinge i soggetti di così diverso orientamento a restare comunque uniti. 

Fino ad ora la paura di fare la fine dei dissidenti, dei deviazionisti, dei frazionisti del tempo passato, cioè di essere bollati con il marchio d’infamia dei “spretati”, è stata più resistente di qualsiasi divergenza. 

Ma non è detto che questa pausa debba durare in eterno. 

L’incalzare della crisi generale, la preoccupazione di non gettare il paese nel caos, il senso di responsabilità di fronte ai difficili momenti che ancora aspettano la società italiana, potrebbero far saltare l’antico vincolo ed imporre una separazione netta ed irrecuperabile tra i liberali della sinistra ed i non liberali dello schieramento progressista. 

Oppure a provocare la separazione degli incompatibili potrebbe essere la battaglia per le primarie tra Bersani ed i suoi sfidanti. Un dato comunque è certo. Il paese ha bisogno di scelte chiare non di compromessi provvisori e pasticciati. La prima esigenza è di definire una volta per tutte il senso di queste scelte. L’indicazione di chi le dovrà attuare verrà da se.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:06