Adesso si incomincia a capire che le polemiche contro i tagli lineari del governo Berlusconi imposti con testarda protervia da Giulio Tremonti erano solo strumentali. A renderlo evidente è la circostanza che nel momento in cui il governo tecnico di Mario Monti annuncia l’intenzione di dare vita ad una serie di tagli non più lineari ma selettivi, le polemiche ripartono allo stesso modo. I sindacati, pur senza sapere nel dettaglio l’entità e i settori dei tagli, preannunciano battaglia ricordando minacciosamente che il diritto di sciopero non è stato ancora abolito. I partiti d’opposizione si affrettano a schierarsi a fianco delle forze sindacali facendo a gara a chi la spara più grossa contro l’esecutivo che vuole colpire al cuore lo stato sociale. E le stesse componenti della maggioranza che appoggia l’esecutivo tecnico incominciano a prendere le distanze dai propositi di Mario Monti spiegando che il loro sostegno ai provvedimenti non è affatto scontato e dipenderà dalla natura e portata dei provvedimenti stessi.
Il problema, allora, non sono i tagli lineari o selettivi. Il problema sono i tagli in genere. Cioè il tabù della intangibilità assoluta della struttura complessiva assunta nel corso del secondo dopoguerra da quello che avrebbe dovuto essere lo stato sociale e che ha progressivamente assunto la forma dello stato burocratico-assistenziale.
La responsabilità del tabù è sicuramente nel conservatorismo culturale che domina incontrastato le classi dirigenti, politiche, sociali e burocratiche, del nostro paese. Ma prendersela solo con il conservatorismo di sindacati, partiti e quadri dirigenti dell’elefantiaco apparato dello stato non solo non è corretto ma rischia anche di essere un perfetto alibi per chi si limita a predicare la necessità del tagli ma non appare in grado di elaborare un qualsiasi progetto teso a realizzarli in maniera concreta e, soprattutto, compatibile con la realtà del paese.
Manca un progetto. Che non sia solo quello di compiere qualche risparmio contingente, eliminare qualche spreco del momento, ridimensionare un po’ di costose escrescenze stataliste. Ma che sia modellato su una visione realistica e completa di come dovrebbe essere il futuro sistema-paese.
Fino ad ora una visione del genere è totalmente mancata. Si parla di qualche iniziativa sul terreno della riduzione dei costi della sanità e di qualche dicastero già passato sotto la mannaia dei tagli lineari.
Si rilancia l’idea di un imprecisato accorpamento delle province e di qualche riduzione progressiva degli alti dirigenti del settore statale. Ma si tratta di misure isolate, slegate una dall’altra, del tutto scoordinate e sicuramente ispirate più alla necessità di tamponare l’emergenza e fornire una dimostrazione di rigorismo a buon mercato piuttosto che all’esigenza di avviare una azione di risanamento ispirato ad un progetto di risanamento complessivo.
Esiste una ragione per l’assenza di un progetto del genere? Certo che esiste. Ed è la consapevolezza, sia di chi predica la necessità di rompere il tabù dello stato burocratico-assistenziale e chi si arrocca su posizioni di massimo conservatorismo, che anche se esistesse un disegno di riforma perfetto per concretizzarlo nella palude paralizzante della società italiana ci vorrebbe un arco temporale di almeno una generazione. Dove mettere i dipendenti delle province abolite? Come favorire l’uscita dal lavoro dei dirigenti dello stato? Che fine far fare ai milioni di persone che vivono con gli stipendi delle oltre cinquemila società ruotanti attorno alle istituzioni politiche?
I conservatori si trincerano dietro questi interrogativi. Chi pensa che nel tempo lungo di una generazione il paese sarà morto dovrebbe affrettarsi a sfondare la trincea della conservazione con una idea di grande riforma. Perché al punto in cui siamo tirare a campare con qualche taglio di facciata equivale, come non avrebbe mai detto Giulio Andreotti, a tirare le cuoia.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:19