Grande coalizione, solo se liberale

La logica dice che l’unico modo per governare il paese nella prossima legislatura debba passare attraverso la formazione di una grande coalizione. Probabilmente guidata sempre da Mario Monti ma caratterizzata non più dalla presenza di soli tecnici ma anche dei personaggi più rappresentativi dei partiti della maggioranza. Il buon senso dice anche che questa grande coalizione potrà governare solo realizzando quelle riforme che l’attuale esecutivo non ha potuto realizzare perché privo di quella legittimazione elettorale indispensabile per scelte effettivamente incisive. Esiste, però, una grande contraddizione tra quanto indica la logica e quanto impone il buon senso.

Perché le riforme da realizzare non sono asettiche, generiche, prive di una loro precisa connotazione. Solo, al contrario, tutte segnate dall’esigenza di incidere sullo stato burocratico-assistenziale che schiaccia in maniera crescente ed insopportabile il cittadino ed impedisce al paese di avviare concretamente il processo di uscita dalla crisi economica. Massimo D’Alema, prendendo a pretesto l’esito del recente vertice di Bruxelles segnato dal parziale successo ottenuto da Hollande e Monti nei confronti della Merkel, sostiene che la prossima legislatura dovrà essere segnata da una svolta verso le politiche da sempre portate avanti dalla sinistra. Le riforme da realizzare sono di segno contrario rispetto a quello indicato dall’esponente post-comunista. Tagliare gli eccessi di spesa pubblica significa compiere scelte dirette a ridurre il peso delle articolazioni dello stato in cui si sono da decenni annidiate le clientele che costituiscono da sempre la base elettorale dei partiti di sinistra. Semplificare l’apparato burocratico comporta  colpire e ridimensionare quei gruppi di potere che hanno sposato per convenienza ed interesse la cultura dirigista e statalista della sinistra.

La futura grande coalizione deve assumere misure e provvedimenti, peraltro chiesti dall’Europa, che sono di natura non statalista ma, con buona pace di D’Alema, esattamente contraria, cioè liberale. Di conseguenza, se la logica dice che il governo della prossima legislatura dovrà essere caratterizzato dalla presenza del Pd nella coalizione, il buon senso stabilisce che, a meno di non voler svolgere un ruolo di semplice zavorra del futuro esecutivo e quindi a far saltare la speranza di uscita dalla crisi, il Partito democratico che oggi propone il ritorno al vecchio statalismo sarà costretto a convertirsi alla cultura ed alla pratica liberale.

È credibile una ipotesi del genere? In tempi normali la risposta sarebbe necessariamente negativa. 

Ma una grande coalizione è frutto dell’emergenza. E l’emergenza può anche imporre una serie di compromessi tra statalisti e liberisti fondati sulla comune esigenza di ripulire lo stato sociale delle escrescenze burocratico-assistenziali che lo appesantiscono e lo degradano. Condizione essenziale per la buona riuscita di una operazione fin troppo delicata è però che gli statalisti del Pd si liberino del condizionamento dei qualunquisti e dei demagoghi che li incalzano alla loro sinistra. E che i liberali del Pdl non siano soffocati e fagocitati da quei continuisti dell’uso sconsiderato della spesa pubblica lasciati in tragica eredità al centro destra dalla prassi politica e dalla cultura del regime democristiano della Prima Repubblica. Il Pd, allora, si liberi di Vendola, Di Pietro e si concentri sulla sua vena riformista. A sua volta il Pdl dia spazio alla sua componente liberale. 

Per consentire compromessi reali, non inutili paralisi.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:24