L'antipresidenzialismo del Presidente

Al più presidenzialista dei presidenti non piace una riforma di stampo presidenzialista. Non è un paradosso o un gioco di parole. Ma una singolare realtà. Che conferma l’esistenza di una grave anomalia nel sistema politico nazionale. Quella di un Quirinale che non ci pensa nemmeno a svolgere il ruolo di “notaio della repubblica” affidatogli formalmente dalla Carta costituzionale ma che interviene pesantemente ed in prima persona sulla scena politica facendo pesare al massimo il prestigio e l’autorevolezza della propria carica.

La nota che Giorgio Napolitano ha diffuso giovedì scorso non è una sortita estemporanea del Capo dello stato motivata dalla preoccupazione di non vedere andare in porto in Parlamento alcune riforme istituzionali che erano state concordate dai partiti sostenitori del governo tecnico di Mario Monti. È, al contrario, l’apice di un vero e proprio “crescendo” niente affatto rossiniano ma esclusivamente e squisitamente “napolitano”.

Nei primi anni del suo mandato l’attuale presidente della Repubblica ha brillato per il suo equilibrio, la sua imparzialità ed il suo sforzo di far dimenticare la propria storia di uomo di parte (e di una parte fin troppo marcata) per assumere il ruolo di rappresentante di tutti gli italiani. Da quando la crisi economica ha incominciato ad aggravarsi ed il proprio mandato ad esaurirsi, invece, Napolitano si è dedicato ad un interventismo politico che non solo non ha subito soste ma, che ha addirittura avuto un andamento sempre più crescente.

È stato sicuramente uno strappo alla prassi costituzionale decidere di nominare di punto in bianco Mario Monti senatore a vita per poi attrbuirgli, a sole 24 ore di distanza, l’incarico di formare un governo tecnico. È stata altrettanto sicuramente  una anomalia costituzionale porsi di fronte all’opinione pubblica del paese ed alle forze politiche presenti in Parlamento come l’unica e superiore fonte di legittimazione del governo dei tecnici mai sottoposta ad alcuna verifica di tipo elettorale. Intervenire sul voto dell’assemblea di Palazzo Madama in favore del Senato federale contestando la decisione presa a maggioranza, sia pure ristretta, dei senatori ed auspicando il sollecito ritorno ad una intesa di massima di Pdl, Terzo Polo e Pd, diventa la terza e più smaccata forzatura della serie.

Che sarà pure motivata dalla preoccupazione per il rischio che in questo modo non si arrivi ad alcuna riforma  istituzionale. Ma che al momento appare soprattutto come uno stop fin troppo brusco alla eventualità che Pdl e Lega possano ripetere la votazione sul Senato Federale e far passare in Senato la riforma  dello stato  in senso presidenzialista.

Nessuno, naturalmente, pensa che senza il freno di Napolitano il presidenzialismo abbia una qualche possibilità di diventare concretamente l’architrave della Repubblica. 

È fin troppo evidente come Pdl e Lega stiano semplicemente sventolando il primo la bandiera presidenzialista e la seconda quella federalista solo per risvegliare e rimettere in ordine le proprie truppe elettorali. Ma la questione in ballo non riguarda l’efficacia o meno dell’iniziativa del Capo dello stato. Riguarda la legittimità costituzionale del suo atto politico. 

Legittimità che sarebbe scontata se Napolitano fosse un presidente eletto direttamente dal popolo. Ma che non è affatto scontata visto che la Costituzione consente al Capo dello stato di intervenire sul Parlamento solo tramite i messaggi alla Camere. Non con le note stampa normali per gli esponenti dei partiti ma impropri per l’inquilino del Colle. 

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:15