Ma cosa festeggiamo, se vincono gli islamici?

Ma che c’è da festeggiare se a Il Cairo s’insedia un presidente, Mohammed Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani? Si tratta di un festeggiamento che nasce dalla convinzione che in Egitto abbia vinto la democrazia e perso l’autoritarismo dei generali? Dall’idea radicata in Europa che ogni rivoluzione abbia comunque uno sbocco di progresso e di avanzamento della società e che, di conseguenza, la rivoluzione egiziana contro il dittatore Mubarak segni un balzo in avanti dell’Egitto verso una radiosa primavera di libertà, giustizia sociale e pace per il Medio Oriente e per l’intero Mediterraneo? Oppure la soddisfazione che tanti politici italiani manifestano è solo una soddisfazione di semplice imitazione che segue e ricalca, tanto per non trovarsi fuori linea, la grande soddisfazione per l’avvento al potere in Egitto di un leader dei Fratelli Musulmani manifestato dall’amministrazione democratica Usa e dai suoi alleati dell’Arabia Saudita e degli emirati del Golfo?

Sarà il caso che i dirigenti dei partiti italiani, soprattutto quelli che ritengono di essere destinati a governare il paese nella prossima legislatura, si pongano in fretta questo interrogativo e trovino di corsa una risposta adeguata. Perché, in realtà, c’è ben poco da festeggiare. Perché l’elezione di Morsi, che segna la conquista del potere nel principale paese arabo del Mediterraneo dei Fratelli Musulmani, non rappresenta il trionfo della democrazia sull’autoritarismo dei generali. Ma solo in passaggio da un autoritarismo laico ad un autoritarismo venato di islamismo. E perché, soprattutto, gli interessi che stanno alla base della soddisfazione degli Stati Uniti e dei paesi produttori di petrolio dell’area del Golfo sono non solo diversi ma addirittura contrastanti con gli interessi dell’Europa in generale e dell’Italia in particolare.

Chi governerà il nostro paese nei prossimi anni deve incominciare a comprendere che il mito delle rivoluzioni comunque progressive può forse valere ancora in Europa ma è stato da tempo sconfessato nei paesi arabi. Le rivoluzioni, da quella iraniana in poi, hanno avuto sempre un esito regressivo. Cioè hanno sempre segnato il passaggio da un regime autocratico più o meno laico ad un regime totalitario fondato sulla esaltazione dell’islamismo. Nei paesi arabi la caduta dei dittatori non produce democrazia ma teocrazia. Con effetti altrettanto sanguinari e liberticidi di quelli che avrebbero dovuto essere superati e cancellati.

Gli interessi di Obama, dell’Arabia Saudita e degli emirati, poi, non s’identificano affatto in quelli dell’Europa. 

Il presidente Usa, che per la propria campagna elettorale usufruisce abbondantemente dei finanziamenti provenienti dai paesi produttori di petrolio arabo, bada all’interesse contingente del proprio stesso paese.

 Che è quello di mantenere, sia pure attraverso governi locali ormai votati alla promozione del più chiuso tradizionalismo islamico non solo nei paesi musulmani ma anche in quelli dove esistono grandi comunità arabe, la tradizionale influenza Usa sulle aree mondiali di maggiore produzione energetica. 

Ma Obama, cosi come la sua segretaria di Stato Clinton, non ha alle spalle alcuna memoria storica di cosa possa significare per l’Europa convivere con un mondo islamico fanatizzato e deciso ad estendere la propria egemonia politica e religiosa verso il Nord un tempo fanaticamente cristiano ed oggi sostanzialmente privo di qualsiasi identità religiosa.

Che succederà quando da Tunisi fino a Il Cairo passando per Tripoli e Bengasi tutta la sponda meridionale del Mediterraneo sarà segnata dal trionfo e dal predominio dei Fratelli Musulmani?

All’amministrazione democratica Usa la faccenda non interessa granché. Alle cancellerie europee dovrebbe interessare molto. 

Non solo perché se il mondo musulmano decidesse di far fare ad Israele la stessa fine che i proprie predecessori riservarono ai Regni Cristiani di Gerusalemme (cioè la cancellazione dalla faccia della terra) ne scaturirebbe un conflitto mortale dalle inevitabili conseguenze sull’Europa. 

Ma perché se l’infiltrazione dei capitali arabi nell’economia europea fatta non con il criterio del semplice profitto ma con quello dell’espansione politica dovesse continuare, ben presto il Vecchio Continente si ritroverebbe proiettato in un futuro in tutto simile al passato degli inizi del millennio precedente. 

Si parla molto in questo periodo di Europa e della necessità della sua unità politica. 

Il primo passo per realizzarla non riguarda solo la tenuta dell’euro ma anche quello della consapevolezza del pericolo islamista alle porte.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:23