In questi giorni, sulla base di alcune dichiarazioni espresse in tal senso del premier Monti, si ridiscute sulla possibilità di vendere buona parte del patrimonio pubblico per abbattere il nostro enorme debito il quale, per la cronaca, è cresciuto di altri 50 miliardi di euro dall'inizio dell'anno. Ora, considerando piuttosto vaga ed illusoria questa prospettiva, rilevo con un certo dispiacere che pure un ottimo liberale come Oscar Giannino sia potuto cadere preda di un simile abbaglio. In sostanza, molto brevemente, vi sono alcune elementari considerazioni di buon senso le quali dovrebbero farci comprendere che non sia affatto risolutiva la scelta di mettere sul mercato una fetta consistente del citato patrimonio pubblico.
In primis, ammesso e non concesso di trovare da qualche angolo del pianeta i capitali necessari per tale colossale vendita (in Italia, con la gravissima crisi di liquidità in atto, la cosa mi sembrerebbe assai improbabile), i tempi per realizzarla sarebbero piuttosto lunghi, per ovvie ragioni, col rischio di provocare un ulteriore crollo nelle quotazioni immobiliari, a causa di questo aumento forzato dell'offerta, con la conseguenza di ricavare molto meno di quanto le attuali valutazioni di mercato farebbero presupporre. In secondo luogo, e questo mi sembra l'argomento economico più importante, se una famiglia molto indebitata continua a spendere ogni anno più di quel che produce, risulta evidente che l'alienazione delle eventuali case che essa possiede possono solo allungare di un certo periodo il redde rationem dell'inevitabile fallimento.
Fallimento che, allo stesso modo di un Paese come il nostro che
non cresce da almeno un decennio, si può evitare solo
riequilibrando in maniera strutturale il bilancio familiare e
quello pubblico nel caso dell'Italia. D'altro canto, come molti
liberali sostengono da secoli, la ricchezza delle nazioni non è
data dai beni statici (non possiamo distribuire pezzi di Colosseo
come cedola per i possessori di Btp), bensì quest'ultima deriva
essenzialmente dalla capacità di un popolo di organizzare il lavoro
produttivo. Ed è chiaro che se tale capacità è resa problematica da
un progressivo squilibrio tra economia privata di mercato ed uno
Stato sempre più ipertrofico che è giunto a divorare il 55% del
Pil, non c'è dismissione che possa salvare il sistema dalla
bancarotta, o default che dir si voglia.
Oltre alla non trascurabile considerazione che, lasciando in piedi
l'attuale molok pubblico divoratore di risorse, è molto probabile
che gli eventuali benefici finanziari derivanti dalla vendita in
oggetto rinforzerebbero ulteriormente il partito trasversale della
spesa, allargando ancor più i confini nel nostro strisciante e
fallimentare collettivismo all'amatriciana. Per questo motivo credo
che la strada maestra, seppur stretta e tortuosa, del risanamento
debba passare per una drastica riduzione della spesa
corrente, principalmente attraverso un progressivo arretramento
delle troppe funzioni esercitate che la politica e la burocrazia
attualmente esercitano. Meno Stato e più mercato, nei fatti e non
solo negli slogan, questa sarebbe la vera dismissione da
realizzare.
Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:06