I giuristi del partito di Repubblica

Anche sulle riforme istituzionali il partito-Repubblica sembra voler rilanciare la sua "Opa" sul Pd e condizionare il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. 

I giuristi-editorialisti di Repubblica, tra cui Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, che ieri hanno firmato un accorato appello contro la riforma della Costituzione in discussione in Parlamento, sarebbero candidati ideali in quella lista civica della società civile da affiancare al Pd, targata appunto "Gruppo L'Espresso-Repubblica", di cui si vagheggia in questi giorni in editoriali e retroscena. 

In una lettera piena di sdegnati e pomposi «inammissibile» e «inaccettabile», e dai soliti toni apocalittici, come fossimo all'alba di una pericolosa dittatura, i giuristi di Repubblica non solo si schierano, en passant, contro la proposta presidenzialista avanzata dal Pdl. Il loro j'accuse si concentra soprattutto sulle ben più modeste modifiche costituzionali che Pdl, Pd e Udc stanno faticosamente portando avanti.

A chi abbia trascorso su questo pianeta gli ultimi vent'anni di vita sembrerà grottesco sentir parlare di «precipitazione» con cui il Senato ha approvato il ddl di riforma costituzionale. 

È davvero un ribaltamento della realtà sostenere che non ci sia stata in questi anni una «vera discussione pubblica» sulle varie ipotesi di riforma. Il problema, semmai, è che c'è stata troppa discussione, spesso funzionale allo status quo, e zero decisioni. 

Dopo due decenni di dibattiti, proposte, bicamerali, referendum, può non piacere il punto d'equilibrio concordato in Parlamento tra le maggiori forze politiche, ma certo non lamentare un improvviso "colpo di mano".

Riduzione del numero dei parlamentari, superamento del bicameralismo perfetto, processo legislativo più spedito e rafforzamento dei poteri del premier sono sufficienti a far tuonare i sacerdoti della Costituzione del '48, ma se, come dicono, con queste riforme si stanno «cancellando garanzie e bilanciamenti propri di un sistema democratico», allora bisogna concludere  che ben poche democrazie occidentali passerebbero l'esame di democraticità di Zagrebelsky, Rodotà & Co... Il loro attacco si concentra sul "potere" attribuito al presidente del Consiglio di chiedere (solo chiedere, non decidere) lo scioglimento delle Camere, che mortificherebbe il Parlamento, addirittura «conculcato nelle sue stesse funzioni e nella sua libertà», e renderebbe «marginale» il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica. 

Le tesi di questa specie di "partito della Costituzione", che considera la carta del '48, anche nella seconda parte, quella ordinamentale, un totem intoccabile, condannarebbero l'Italia all'ingovernabilità, quindi al default politico ed economico. 

Le sfide attuali ci dimostrano quanto siano ormai inadeguati meccanismi istituzionali concepiti per funzionare con i tempi a cui girava il mondo sessant'anni fa. Oggi viviamo nell'era della "turbo-politica": l'interdipendenza economica e finanziaria, e le comunicazioni in tempo reale, richiedono decisioni rapide, se si vuole che siano efficaci.

Al contrario, la timida riforma che il Senato ha appena approvato in prima lettura non è sufficiente. 

Senza una legge elettorale di tipo maggioritario il nostro sistema politico ritornerebbe ad essere esposto alla frammentazione e l'elettorato privato della possibilità di scegliere direttamente da chi essere governato. 

E senza una forma di governo in grado di coniugare in maniera efficiente governabilità e controllo democratico, chiunque venisse investito della fiducia dei cittadini non riuscirebbe ad incidere nei modi e nei tempi necessari. 

Il presidenzialismo francese, così come quello americano, appaiono ad oggi i più attrezzati a soddisfare tali esigenze.

D'altra parte, i giuristi di "Repubblica" dovrebbero riconoscere che se è cresciuta la domanda di "poteri" in capo al premier, negli ultimi vent'anni la stessa figura del presidente della Repubblica si è evoluta guarda caso in senso presidenzialista, allontanandosi dallo spirito dei costituenti. 

Gli ultimi presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo in modo sempre meno notarile e neutrale, inaugurando prassi di vera e propria condivisione con il governo e il Parlamento dei poteri di indirizzo politico. 

Non è uno sbocco da temere, ma da regolare ed equilibrare a livello costituzionale, innanzitutto attraverso il crisma dell'investitura popolare diretta.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:35