Chi è nato vecchio non può svecchiare nulla

Quanto ci mette la sobrietà a degradare in mestizia? Poco, a giudicare dall'ultima copertina di Sette, lo sciccosissimo magazine made in Corriere della Sera. Scartare la plastichina che tiene insieme rivista e gadget e sentirsi calare addosso un velo di malinconia è un tutt'uno. Non per l'uso della carta riciclata che, archiviando le copertine lucide e patinate, ti fa subito ricordare che la pacchia è finita e che ora siamo in ristrettezze. A me - per esempio - la stampa opaca, con una buona grafica, piace parecchio. Niente da ridire. È anzi la dimostrazione che nella povertà ci può anche essere un bel po' di eleganza. Ma quando si confonde il minimalismo con la tristezza, il rischio di scivolare sempre più in basso nella scala della depressione è altissimo. Ed è quel che accade con questa copertina di Sette. Titolo: «Svecchiamo il futuro». 

Giusto, interessante, evviva: era ora. Peccato che a leggere il titolo non ci si arrivi se non dopo aver visto la foto. Che ritrae la premiata ditta Fabio Fazio e Roberto Saviano, seduti in modo bislacco su due sedie di legno. Sfondo nero. Abiti a casaccio, ma sui toni scuri del bigio e del marrone. Passi. Perché è l'espressione dei due volti che colpisce. Volti più scuri degli abiti, senza l'accenno di un sorriso. E ti domandi: mamma mia, cosa possono mai svecchiare questi due? Saranno bravi, per carità. Però sono più cupi dell'ambientazione di Blade Runner. Se il loro umore rappresenta il futuro, Dio ci protegga. Scavalcano Mario Monti e suoi tecnici in pessimismo. Ti fanno rimpiangere Tonino Guerra - buonanima - e il suo allegro ottimismo. Molto più credibile lui, il vecchio poeta, se vogliamo immaginare un tentativo di far rialzare la testa all'Italia e alle giovani generazioni. La capacità di rinnnovare e restituire una spinta creativa e generatrice non dipende certo dall'età, ma dallo spirito. E invece Fazio e Saviano, saranno anche tanto bravi, ma sono nati vecchi. Visivamente, di certo. Ma anche culturalmente. Rimangono aggrappati ai miti dell'infanzia, quando va bene. A quelli dei padri quando va male. Oggi battezzano una nuova sfida televisiva e come titolo hanno scelto ancora una volta una canzone - bella, per carità - che poco ha a che fare col futuro, con la speranza, con l'innovazione: Quello che non ho di Fabrizio De Andrè, disco del 1981. 

Basta guardare la copertina del disco per capirlo: un bellissimo quadro che raffigura un indiano a cavallo, mentre alle spalle il sole tramonta. Mentre ti prende la tristezza, leggi poi l'annuncio di Saviano: il primo monologo della trasmissione parlerà degli imprenditori suicidi del Nord est in crisi. È così che immaginano di trasmettere positività, speranza, voglia di correre verso il futuro?

Il punto in fondo è proprio questo: chiedere a Fabio Fazio di rappresentare il futuro non è nemmeno giusto, è cattiveria. Per anni "nemico" di Berlusconi (come ama definirsi da solo) ha navigato gli schermi televisivi per tutto il ventennio berlusconiano. Cominciando a conquistare spazio, pubblico e visibilità proprio nel 1993, quando Forza Italia era ancora nell'incubatrice e lui lanciava "Quelli che il calcio". Volente o nolente, quella è l'epoca che rappresenta e che gli appartiene. Nei passaggi da un'era ad un'altra ci si può sempre riciclare, ma la maggior parte delle volte si è "il segno dei tempi" una volta sola nella vita. Specie chi si definisce per contrasto, perde smalto quando viene meno l'avversario. Faccia quel che crede, ma ci risparmi le lezioni. Per azzannare il futuro c'è bisogno di umiltà, fantasia e sacrificio. Forse di serietà. Certo non di mestizia. Per fortuna in casi come questo, ci salva sempre il telecomando. 

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:30