Il presidenzialismo serve al paese

Il "ventennio buttato"? Una narrazione di comodo. Prognosi costituzionale: presidenzialismo, un'idea su cui confrontarsi.La narrazione. C'è una narrazione che ha largo in corso in questo periodo e che spiega, in modo accattivante, la crisi politica e istituzionale in cui è immerso da tempo il nostro paese.Il racconto dice che la Seconda repubblica è stata un disastro caratterizzato da un maldestro tentativo di imporre con incentivi elettorali, introdotti da forzature legislative e referendarie, un sistema politico maggioritario e bipolare ad un paese che non è adatto a sostenerlo. Tutto questo avrebbe prodotto guai maggiori di quelli che furono all'origine del collasso della Prima repubblica. Il bipolarismo all'italiana, imposto da incentivi elettorali, avrebbe prodotto coalizioni forzose e coatte, costruite per vincere e non per governare e che infatti avrebbero sempre fallito la prova del governo. Sarebbe stato così per il primo Berlusconi, per l'Ulivo, per il secondo Berlusconi, così come per l'Unione e per il terzo Berlusconi.

Finalmente, affermano i nostri narratori, questa verità è ormai evidente a tutti. Dimostrazione ultima e indiscutibile sarebbero l'ultimo disastro compiuto da Berlusconi - il dissesto economico finanziario e la condizione di paria internazionale dell'Italia - e il paese trattenuto all'ultimo istante sull'orlo del precipizio dal governo tecnico, frutto della sapienza di Napolitano che ci ha fatto dono della competenza di Monti. Urge quindi uscire con urgenza da questo ventennio buttato, dalle sue illusioni e dai suoi effetti collaterali individuati nel populismo, nell'antipolitica e nella personalizzazione del confronto. Uscirne - dicono i nostri narratori - vuole dire ridare vigore e flessibilità al sistema parlamentare, togliendogli la rigidità del "bipolarismo coatto" e ridando alla nostra democrazia quel fondamento razionale basato sul confronto di idee e di programmi che il muscolarismo e la personalizzazione le avrebbero sottratto e che può venire soltanto dai partiti. Ma partiti veri e rigenerati - il cui modello è e resta il partito del Novecento, il partito per antonomasia della nostra storia repubblicana. Perché, aggiungono e concludono i nostri narratori, non c'è democrazia senza partiti e i partiti sono e non possono essere altro che quello che abbiamo appena detto.

La contronarrazione. Ora noi non condividiamo questa narrazione della nostra crisi e dei nostri ultimi venti anni di storia. Non condividiamo la diagnosi e quindi non condividiamo nemmeno la terapia.Noi non consideriamo il governo tecnico Monti-Napolitano come l'epifania del mondo che verrà: quello dei governi nati dagli accordi di palazzo e non dal voto dei cittadini. Non pensiamo nemmeno che i partiti siano rigenerabili in forza di una nuova legge elettorale che li imponga nuovamente come il centro e il dominus del sistema politico e istituzionale, ai quali delegare ex post la formazione dei governi e delle maggioranze. Non pensiamo nemmeno che a quei partiti immaginati e immaginari possano essere restituiti legami profondi e linfa sociale, al di fuori di logiche di personalizzazione e di primarie aperte, quando la loro mera esistenza materiale dipende in modo pressoché esclusivo dal finanziamento pubblico (come se fossero un Caf) chiamato rimborso elettorale. Basterebbe questa nota sul finanziamento a fare piazza pulita delle discussioni su partito degli iscritti o degli elettori, aperto o chiuso, quando già ora tutti i partiti sono a pieno titolo partiti di elettori che li finanziano, tramite le casse pubbliche, in misura percentuale al loro voto e, pro-quota, anche con l'aggiunta di chi non vota.

E noi non pensiamo nemmeno che a spiegare la crisi e a spiegare le nostre debolezze - penso al centrosinistra - basti ingigantire Berlusconi, i mezzi che ha avuto e che ha a disposizione, e il pericolo che avrebbe rappresentato per la nostra democrazia (pericolo ora curiosamente dimenticato e rimosso). Con i narratori che raccontano una storia che non ci convince condividiamo tuttavia le preoccupazioni per la crisi del nostro sistema politico e istituzionale e le domande sullo stato di salute della nostra democrazia. Mentre respingiamo invece con decisione la condanna sommaria del ventennio della cosiddetta seconda repubblica e la spiegazione della crisi in cui ci troviamo. 

Le ragioni della crisi. La crisi della nostra democrazia è molto più seria e profonda di quanto potrebbero fare credere le proposte suggerite dai narratori per risolverla. Questa crisi ha a che fare con la rinuncia ad aspetti essenziali della sovranità monetaria e finanziaria (euro e debito) tipica di una stato nazionale. Questa crisi ha a che fare con la tensione reale e il conflitto potenziale tra gli impegni europei sottoscritti e l'interesse nazionale (differenziale di competitività e produttività e costi sociali del ri-aggiustamento fiscale e finanziario). Questa crisi ha a che fare con l'emergere di un «governo tecnico sopranazionale» (come lo ha definito Monti stesso), privo di una vera legittimazione democratica, che definisce il quadro di azione pluriennale del governo nazionale e che limita la libertà di scelta degli elettori ovvero può fare apparire il confronto politico libero, le libere elezioni e la democrazia come un rischio per la stabilità e il comune benessere.

È come se al vecchio bipolarismo est-ovest (che definiva in Italia a-priori il campo del governo e dell'opposizione) si stesse ora sostituendo un nuovo bipolarismo del vincolo-esterno o dei compiti-a-casa. Non possiamo proseguire su questa pista che ci porterebbe troppo lontano, diciamo soltanto che pure assumendo come ineludibile il vincolo esterno, noi pensiamo che possa essere interpretato in modi diversi e, soprattutto, che tale assunzione debba essere accompagnata da un'azione europeista decisa (di cui non si vede traccia sufficiente) volta a rendere una realtà in tempi non biblici l'Unione politica europea, con una cittadinanza europea, un governo europeo, un fisco e un tesoro comuni. Perché una moneta senza stato non può durare a lungo così come non possono reggere a lungo degli stati senza moneta. 

La nostra tesi. Ciò detto e ritornando ai venti anni trascorsi e al giudizio su quanto è successo e alle spiegazioni della nostra crisi, noi pensiamo che nel ventennio trascorso vi siano risultati importanti che vanno annoverati tra i successi nell'esperienza storica nazionale. Tra questi: il bipolarismo e l'alternanza di governo tra forze diverse e alternative; le esperienze e gli esperimenti di democrazia partecipata volti a dare vita a una "democrazia dei cittadini" che nel triangolo elettore-forze/politiche-istituzioni  mettesse al centro il binomio elettore-istituzioni, che affidasse un ruolo servente e non preminente a forze politiche post-ideologiche connotate da un forte carattere plurale e coalizionale.  Le primarie e una bene intesa personalizzazione della politica sono attrezzi fondamentali di questa esperienza. Il sistema elettorale maggioritario, basato su collegi uninominali, è un altro strumento essenziale di questo tentativo. Se questo è il nostro giudizio, che cosa allora non ha funzionato? Perché è evidente che qualcosa non ha funzionato. E, seconda domanda, è possibile non buttare il bambino con l'acqua sporca, come a nostro parere vorrebbero fare i narratori da cui siamo partiti?

La risposta alla prima domanda è questa: quello che non ha funzionato è che la riforma di fatto del sistema politico ed istituzionale avviata nel 91-93 non è stata accompagnata da un adeguato cambiamento della seconda parte della costituzione. La risposta alla seconda domanda è: sì, si può,ma solo a condizione che si abbia la volontà e il coraggio di uscire dallo schema parlamentarista e immaginare soluzioni della crisi di tipo "presidenziale": elezione diretta del capo dello stato, semi-presidenzialismo francese, governo diviso all'americana o elezione diretta del premier.

Questo è il senso  del nostro ragionamento ed è il nucleo della nostra proposta su cui vorremmo il Suo parere di studioso/a di scienza politica e diritto costituzionale. Se dunque riconosciamo che la scelta dei governi secondo il principio maggioritario-presidenziale espressa in sede elettorale sia stata in conflitto con il principio costituzionale della forma di governo parlamentare allora la nostra tesi è che la seconda repubblica è stata resa impotente proprio da quel conflitto irrisolto - di cui sono stati interpreti varie forze che si sono anche alternate nei ruoli di guastatori, di promotori di trasformismo e di ribaltonismo. Se, ad esempio, il premier indicato dagli elettori avesse avuto il potere di sciogliere le Camere, la storia della seconda repubblica sarebbe stata molto diversa. Forti del varco aperto dal conflitto tra principio presidenziale e principio parlamentare, tutte le forze politiche di opposizione o insoddisfatte hanno fatto leva sulla libertà di fare e disfare gruppi in parlamento per capitalizzare benefici e indebolire il governo in carica piuttosto che lavorare su una seria coerente  proposta alternativa. Dallo stesso varco hanno fatto pressione i poteri forti extrademocratici (economici, mediatici, giudiziari, burocratici tecnocratici etc) per tenere sotto scacco qualsiasi governo e impedire alla 'politica' di diventare troppo forte o troppo autonoma. Il risultato di questa sterile ed estenuante battaglia è il reciproco indebolimento e perdita di autorevolezza di parlamento e governo intesi come istituzioni politiche centrali della vita pubblica. E' questa impotenza e questo fallimento delle forze politiche, in solido tra loro, (maggioranza e opposizione) che spiega lo spostamento del centro politico sul Presidente della repubblica, agevolato ovviamente dalla crisi internazionale, dal vincolo esterno e dal "governo tecnico soprannazionale". E' questo che spiega sia il discredito della "politica" che il sollievo per il governo tecnico e il suo riformismo dall'alto.

E' il terzo governo tecnico in meno di venti anni. Ma una democrazia così è forse soddisfacente? Nel momento in cui il governo in carica è nato, gli osservatori più acuti ne hanno riconosciuto l'eccezionalità e la natura "presidenziale", chiedendosi se non fosse il caso di rendere formalmente presidenziale una costituzione che lo stava diventando di fatto e in un senso affatto diverso da quello temuto a sinistra negli anni trascorsi. Ce lo chiediamo anche noi e non da ora. Del resto le ragioni della nascita di un'iniziativa poltico-culturale come Gazebos e della riflessione sul presidenzialismo, precedono e non di poco, la nascita del governo Monti. Certo è che noi oggi ci troviamo con un governo tecnico caratterizzato da tre elementi: a) realizza un programma scritto a Francoforte dalla Bce; b) è emanazione del capo dello Stato che ne è stato ideatore e demiurgo; c)  rappresenta la più limpida dissociazione tra potere e responsabilità: il parlamento infatti ha tutta la responsabilità ma nessun potere. Non si può definire entusiasmante lo stato di salute della nostra democrazia. È troppo dire che sarebbe auspicabile ritornare al più presto ad un governo politico e ad un capo del governo scelto dagli elettori? Oggi anche i narratori che noi abbiamo scelto come interlocutori polemici riconoscono e reclamano la necessità di modifiche costituzionali per rafforzare i poteri del governo e dargli stabilità. Peccato che non riconoscano in questo difetto il limite principale della seconda repubblica che vogliono archiviare e che vogliano correggere la Costituzione per tornare al punto di partenza, perseguendo il programma di fare rinascere i partiti di un tempo e la repubblica dei partiti. A nostro avviso è un programma illusorio e velleitario, che se fosse coronato da successo non risolverebbe la nostra crisi.

Anzi ne esaspererebbe i tratti. A noi sembra invece molto più promettente ragionare su un'alternativa presidenziale a questa ipotesi, alternativa che, oltre ad avere il pregio di non buttare con l'acqua sporca il bambino dell'alternanza che ha visto la luce nella secondo repubblica, avrebbe anche il pregio di assicurare al paese un governo politico e una autorevole e compiuta sua rappresentanza nelle sedi internazionali. Non vorremmo che l'unica democrazia alla quale possiamo aspirare sia quella che chiama i cittadini a decidere di nulla o a ratificare programmi già decisi altrove. Certo, una tale affermazione può apparire nostalgica nel secolo che  vede il declino dell'occidente e l'ascesa della Cina. Viene in mente a tale proposito un noto motto di Deng Xiao Ping: «Non importa il colore del gatto, l'importante è che prenda i topi». Curioso che proprio dal padre del boom cinese venga un insuperabile encomio ai tecnici. Segno che il secolo cinese sarà anche il secolo dei tecnici? Ipotesi possibile, ma per noi da scongiurare in tutti i sensi. 

*deputato del Partito democratico

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:35