Quer pasticciaccio brutto della riforma

Prendendo a prestito il titolo di un celebre romanzo giallo di Carlo Emilio Gadda, "quer pasticciaccio brutto" della riforma del mercato del lavoro sta dando ragione agli ultimi commenti di Emma Marcegaglia.

«Meglio non fare nessuna riforma che farne una cattiva», avrebbe seccamente dichiarato la leader uscente di Confindustria. Una riforma costosa per il sistema delle imprese che, come è stato fatto notare su queste pagine da Simone Bressan, nella sostanza irrigidisce il lavoro in entrata, senza prevedere un adeguato corrispettivo sul fronte della flessibilità in uscita. E da questo punto di vista, ahinoi, sono stato buon profeta quando avevo scritto che il governo avrebbe accettato un compromesso sull'articolo 18 che consentisse al Pd e alla Cgil di poter rivendicare una qualche vittoria.

Ma francamente non pensavo, così come nel caso delle liberalizzazioni fasulle, che Monti e la Fornero andassero oltre un semplice compromesso, calandosi di nuovo le brache nel ripristinare tout court la possibilità della reintegra anche per i licenziamenti individuali di natura economica (sebbene essa venga presentata con una formulazione -nei casi estremi ed improbabili- che a noi liberali suona come una presa per i fondelli). E da questo punto di vista, rispetto a tutti i governi precedenti di questa disgraziatissima repubblica, anche l'esecutivo dei tecnici non sembra sfuggire ad una sorta di regola di piombo della politica italiana: disinvolto nell'usare la leva della spesa e delle imposte e totalmente inefficace sul fronte dei tagli e delle riforme impopolari.

Tant'è che proprio sul capitolo più oneroso di questa, a mio avviso, abortita riorganizzazione del mercato del lavoro, i cosiddetti nuovi ammortizzatori sociali, casca veramente l'asino. Infatti, preso atto che l'aumento dell'1,4% dei contributi per i contratti a termine non è sufficiente a coprire questa voce di spesa, cosa fanno i cervelloni che occupano la stanza dei bottoni? Semplice, spingono il pulsante della pressione fiscale, come se ci si trovasse all'interno di un videogioco e non nell'ambito di un Paese devastato da mezzo secolo di collettivismo strisciante. Pertanto, allo scopo viene deciso l'ulteriore aumento di 2 euro della tassa d'imbarco dei passeggeri che prendono l'aereo -facendo concorrenza in negativo ai voli low cost-, l'abbattimento delle deduzioni sulle vetture aziendale e quello relativo al balzello sul servizio sanitario nazionale che si paga sulle assicurazioni auto. Inoltre, si inasprisce il regime fiscale per i contratti abitativi che non applicano la cedolare secca del 20%.

In estrema sintesi, si dà un altro giro di vite ad una pressione fiscale giunta oramai a livelli insopportabili per qualunque sistema economico. E sembrerebbe confermarlo il gettito dei primi due mesi del 2012, aumentato sì di 2 miliardi -in gran parte dovuti all'aumento delle accise sui carburanti e sui tabacchi- ma circa 1,5 miliardi meno di ciò che il governo pensava di rastrellare. Con questo si  dimostra ancora una volta l'estrema fondatezza della famosa curva di Laffer, in cui al crescere delle imposte oltre una certa misura si verifica un costante rallentamento dell'attività economica, con conseguente perdita di gettito tributario allargato.

Per questo motivo dobbiamo mestamente registrare che pure con questa gattopardesca riforma del mercato del lavoro si contribuisce in modo preoccupante ad esacerbare quegli stessi fattori -più spesa, più tasse e più rigidità burocratica- che stanno sempre più stringendo in una spirale recessiva il nostro intero sistema economico. D'altro canto, non ci volevano dei geni per aumentare ancora una volta le tasse.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:24